NAPOLEONE E LA FILOSOFIA

Immaginiamo di essere a Jena, il 13 ottobre del 1806. In una cittadina della Turingia, famosa unicamente perché sede di una importantissima università, ma che tolto questo era una sonnolenta città di provincia, tranne quel giorno di ottobre del 1806. Quel giorno Jena era in preda al caos, al panico ma anche all’eccitazione generale. Napoleone era in guerra con il Regno di Prussia e Jena era invasa dalla Grande Armata, che si stava preparando alla battaglia del giorno dopo, quella che passerà alla storia come la Battaglia di Jena e Auerstadt, uno dei più grandi trionfi di Napoleone dopo Austerlitz. In quel giorno, prima della famosa battaglia, le strade di Jena erano invase non solo dalla Grande Armata ma dal popolo della città che, in parte solo per curiosità e in parte per sincero entusiasmo, era accorso in strada per veder passare Napoleone.

In mezzo a questa folla c’era un uomo, che probabilmente Napoleone non aveva neppure mai sentito nominare: il suo nome era Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Hegel in quel momento insegnava a Jena, non era ancora forse il filosofo più noto del suo tempo ma lo stava già diventando: in quell’ottobre del 1806 stava terminando di scrivere La Fenomenologia dello Spirito, che sarebbe infatti uscita l’anno seguente. Ed Hegel, dopo aver visto passare Napoleone, scrisse una lettera all’amico Friedrich Niethammer in cui gli raccontò l’accaduto, con parole che sono poi diventate molto famose:

“Ho visto l’Imperatore, quest’Anima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione. In verità è una sensazione meravigliosa, vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina”.

Spirito della storia

Un uomo del calibro di Napoleone era inevitabilmente destinato a suscitare l’interesse di chi si occupa di riflettere sulla realtà e i suoi sviluppi. Ed è questo il punto di partenza per comprendere il tipo di rapporto che intercorre tra Napoleone e il mondo della filosofia.

Va detto che dal canto suo l’Imperatore dei francesi non era un accanito lettore di opere filosofiche. Non che fosse un ignorante privo di qualunque interesse culturale, come certa propaganda anglofona del suo tempo (e anche attuale, pensando al discutibile film di Ridley Scott uscito lo scorso novembre) tenta di dipingerlo. Nutriva, quello sì, un grande amore per la storia (in particolare quella militare, va da sé) e per l’arte antica, greca e romana in primis.

Se Napoleone come uomo non aveva un grande interesse per la filosofia, dalla sua ascesa al potere fino a tempi molto recenti è stata la filosofia ad avere un grande interesse per l’Empereur.

Non tanto per i risultati immediati della sua azione politica: sia perché furono circoscritti in un tempo abbastanza ristretto, poco più di quindici anni, sia perché, ad onor del vero, gli anni dell’Impero (sotto la facciata splendida e brillante) non furono di grandiosa prosperità, a causa delle lunghe guerre portate avanti da Napoleone, ma anche e soprattutto per l’interruzione dei commerci marittimi causati dalla potenza navale britannica.

Possiamo quindi sgombrare il campo da questo aspetto: Napoleone non suscitò il fascino e l’interesse dei grandi pensatori sotto il profilo strettamente politico.

Quello che invece fece sì che di Napoleone non si sia mai smesso di parlare è ciò che lui ha rappresentato per le diverse generazioni sino ad oggi.

Per le generazioni a lui contemporanee e immediatamente successive, Napoleone ha rappresentato il nuovo: il vecchio mondo che veniva spazzato via, l’esportazione della Rivoluzione, la fine dei vecchi privilegi nobiliari: in una sola espressione, l’Anima del mondo che incarna il senso della storia, come aveva scritto Hegel a Niethammer. La Rivoluzione per Hegel era stato un processo contraddittorio: era sia sintesi del sommovimento storico e della trasformazione dello spirito europeo, sia il brutale rovesciamento dei risultati di quest’ultimo. Napoleone rappresenta dunque il compimento e l’aufhebung (il superamento conservativo) di questa antinomia e anzi, allarga la Rivoluzione da fenomeno nazionale francese a fenomeno europeo.

Un uomo che invece fu ostile alla Rivoluzione e a Napoleone, il visconte F. Renè de Chateaubriand, membro in vista del legittimismo più oltranzista, che esultò alla sconfitta di Napoleone a Waterloo e salutò con entusiasmo il ritorno della monarchia assoluta in Francia, rifletté a lungo sul significato dell’epopea napoleonica, arrivando a paragonare il rapporto tra la Rivoluzione e il generale corso al Nodo di Gordio. Nodo che Napoleone riesce a sciogliere portando a compimento la Rivoluzione, facendo sì che quest’ultima si auto-comprendesse (per continuare con una terminologia hegeliana) e divenire azione all’interno della storia. Attraverso Napoleone la Rivoluzione ha un nuovo slancio vitale, che però si concretizzerà definitivamente solo molto tempo dopo la sconfitta di Waterloo, con le Rivoluzioni nazionali del ’30-’31 e soprattutto del ’48.

Napoleone e Nietzsche

Arrivati a questo punto è però necessario operare un balzo in avanti, pur rimanendo sempre in ambito ottocentesco. Non più un Ottocento ancora in preda agli scossoni rivoluzionari e napoleonici, ma un Ottocento sempre più inquieto, intriso di moralismo vittoriano e che in ambito culturale assiste allo spadroneggiare incontrastato del positivismo. È in questo contesto che anche Friedrich Nietzsche ebbe a dire la sua su Napoleone.

 Scrive infatti il Filosofo col martello:

“A Napoleone spetterà un giorno l’onore d’aver fatto che in Europa l’Uomo domini di nuovo sul mercante e sul filisteo”.

Nietzsche non vede in Napoleone una incarnazione del suo Ubermensch, sia chiaro. Non è un ente che si staglia al di sopra della storia, anzi al contrario ci sta dentro in pieno. È l’ente realissimo: un uomo troppo umano, perché incarna la capacità dell’essere umano di cogliere in profondità tutta la misura di sé stessi che è possibile esprimere.

Napoleone anzi riesce a dare nella sua avventura la più profonda completezza e intensità alla dimensione dell’umano. Il motivo di questa visione nietzschiana dell’Imperatore non si esprime in una celebrazione trionfalistica delle sue vittorie. Il momento culminante della vicenda di Napoleone è rappresentato dalle sconfitte paradossalmente. L’unico momento in cui effettivamente Napoleone oltrepassa la dimensione storica è con l’esilio definitivo a Sant’Elena; perché tramite la sua caduta riesce realmente a comprendere l’ascesa. E questa comprensione rende definitivamente umano Napoleone, con il riconoscimento totale del sé.

Questo fa di Napoleone una figura chiave non solo della filosofia idealista di matrice hegeliana, ma anche della filosofia esistenziale.

Torna alla mente qui il Mito di Sisifo per come viene raccontato da Albert Camus. Sisifo è costretto dagli dèi a portare sulle proprie spalle un masso mentre sale una montagna, una volta arrivato in cima la pietra rotola di nuovo giù e Sisifo deve tornare a riprenderla e risalire nuovamente la montagna e così all’infinito. Tuttavia, Camus dice che c’è un momento in cui Sisifo sorride: non quando è arrivato in cima, ma quando il masso è rotolato giù e lui torna a riprenderlo, ora libero dal peso del masso ma conscio di doverlo riprendere, sapendo quindi chi è.

Cos’altro è questo se non una forma accentuata di prometeismo moderno, immagine tanto cara al Romanticismo? Il grande uomo che sfida il proprio tempo e le sue consuetudini e che, anche nella sconfitta, sorride ancora dinanzi a coloro che lo hanno vinto e umiliato.

Contro la fine della storia

L’epopea napoleonica ha avuto molte interpretazioni storiografiche, artistiche e persino letterarie. L’interpretazione filosofica è sempre stata tra le meno considerate quando non addirittura completamente trascurata.

Noi oggi viviamo in un periodo storico che sembra aver paura dei grandi slanci, delle belle idee per cui si è disposti a combattere e morire. E la prima cosa da fare se si vogliono sopprimere questi slanci vitali è consegnare all’oblio gli esempi che hanno simboleggiato passione e forza vitalistica, capacità di entusiasmare e al tempo stesso di disilludere quando necessario. È per questo che oggi è assolutamente necessario riprendersi quelle spinte passionali che nella Certosa di Parma di Stendhal spingono il giovane Fabrizio Del Dongo a scappare di casa per unirsi alla Grande Armata e seguire Napoleone fino alla fine.

Torniamo di nuovo ad avere una grande causa per la quale alzarsi in piedi, togliersi il capelllo, levare le braccia al cielo e gridare un metaforico “Vive l’Empereur!”.

Di Enrico

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