Il “catalizzatore” dell’unità europea
Quando si affronta il tema dell’unificazione europea occorre avere ben chiaro che qualunque tendenza unitaria, che tenda cioè a creare una realtà di ordine associativo, necessita dell’occasione propizia, si direbbe in chimica il “catalizzatore”. Occasione che al momento sembra fornita dall’emergente crisi dei grandi Stati moderni.
La crisi dello Stato moderno
I grandi Stati moderni, in Europa e non solo, storicamente si sono affermati per due motivi prettamente utilitaristici: superare i dazi doganali dei vari staterelli, e – cosa ancor più importante – assicurare la difesa accorpando gli eserciti preesistenti. Tuttavia, pur ammettendo che tale processo ha avuto storicamente una certa funzione, va anche detto che per l’Europa comportò una enorme rinuncia: quella alla propria tradizione, che fu essenzialmente imperiale, regionale e, in certi casi, persino comunale.
Oggi, però, non siamo più nell’Europa di Vestfalia o dell’Ottocento, e di acqua n’è passata sotto i ponti. Lo Stato moderno è in crisi, ed è in crisi perché in crisi sono le motivazioni per le quali è sorto: nell’epoca del WTO la tendenza è quella che verso un unico mercato globale e conseguentemente viene avvertita meno la necessità di scongiurare improbabili dazi, mentre l’emergere di blocchi continentali come USA, Cina e India ha reso qualunque Stato europeo troppo piccolo per poter garantirsi la difesa da sé.
E mentre oramai nessun Stato europeo è più sufficientemente grande da assicurarsi la difesa, al contempo, quasi nessun Stato (tra le poche eccezioni, possiamo forse citare gli Stati partoriti dalle ultime guerre etniche nei Balcani) è così piccolo, coeso e omogeneo da impersonare due esigenze umane prioritarie ma troppo spesso trascurate: il senso d’identità e il senso della comunità.
In fondo, anche gli eventi a cui abbiamo assistito nel corso degli anni Novanta nel Nord-est e, più recentemente, in Catalogna, solo apparentemente hanno a che vedere con questioni di carattere fiscale ed economico, poiché sia Veneti che Catalani tutto sommato stanno bene economicamente, ma vivono comunque male la loro condizione, e la vivono male proprio perché si è perso questo senso dell’identità e della comunità, che adesso cercano in qualche modo di recuperare.
Il ruolo dell’Europa
Seppur da una prospettiva sempre confinata all’aspetto utilitaristico (coerentemente coi tempi che corrono), già adesso viene sempre più avvertita dalle nostre classi dirigenti la necessità di trovare un punto di riferimento europeo, unificante di là dal particolarismo nazionale. Le funzioni che, con tutta probabilità, l’Europa dovrà assumere esclusivamente su di sé negli anni a venire saranno la difesa e la politica estera, prerogative a cui gli Stati moderni hanno dato dimostrazione di non essere più in grado di adempiere: un’Europa con un solo esercito, con un ministro della difesa e un ministro degli esteri condivisi a livello federale, e con proprie rappresentanze diplomatiche, sarebbe una Europa realmente unita e militarmente autarchica, autarchia che è il presupposto per una indipendenza politica sostanziale oltre che formale.
L’etno-federalismo europeo
Provare a indovinare minuziosamente come potrebbe essere strutturata e organizzata l’Europa di domani è un esercizio vano, ma a grandi linee è possibile lanciare qualche previsione, anche sulla base delle esperienze dottrinarie che ci precedono.
Sul finire degli anni Sessanta, ad esempio, Yann Fouéré, un autonomista bretone, teorizzò una “Europa delle cento bandiere”, formulazione che in anni successivi riscosse parecchio successo nei circoli della Nouvelle Droite francese, in particolare all’interno del centro studi GRECE, dove a farsene propugnatore fu – oltre al ben più noto Alain de Benoist – soprattutto Jean Mabire. La loro dottrina dell’Europa partiva dalla legittima convinzione che in una Europa politicamente unita, che assume su di sé tutte quelle funzioni e quei compiti che una volta ebbero a costituire la motivazione intrinseca dei grandi Stati moderni, gli attuali confini non avrebbero più avuto alcuna ragion d’essere, mentre sarebbero balzate in primo piano le esigenze identitarie, rappresentate dalle realtà etno-regionali.
È plausibile quindi che i punti di riferimento periferici di una Europa unita federalmente non sarebbero più gli Stati che conosciamo – che perderebbero di senso – bensì regioni etnicamente omogenee e coese, che potranno anche superare le frontiere odierne (non si vede perché non dovrebbero unirsi, ad esempio, la Valle d’Aosta con la Savoia, oppure la Liguria con le Alpi Marittime francesi).
Nel localismo e nelle dimensioni ristrette è ancora possibile trovare quelle realtà comunitarie, quei valori condivisi, quel rapportarsi fra gente che si conosce, quel forte radicamento alla terra da contrapporre al senso di spaesamento oggi generalizzato.
Roberto Dell’Arte