Ingiustamente condannato per i fatti del 2007, ha ottenuto solo lo scorso anno il primo permesso-premio che gli ha consentito di lasciare il penitenziario per cinque giorni
È noto che la regola fondamentale per la stesura di un articolo è l’impersonalità, il cercare di estraniarsi da ciò di cui si sta scrivendo e tentare di celare la propria opinione, magari facendola trasparire unicamente dalle poche righe trascritte. Eppure, questo semplice principio non può che venire a mancare quando si raccontano storie come quella di Josué Estébanez de la Hija, ragazzo spagnolo classe 1984 che da oramai 16 anni sta pagando con la propria libertà l’essersi sottratto ad un linciaggio.
Molti nel nostro Paese non conoscono gli eventi che hanno portato all’incarcerazione di Josué, giovane patriota che si è visto comminare una pena detentiva di 26 anni e 6 mesi complessivi. E questo anche perché i fatti risalgono ad una data emblematica per l’Italia: l’11 novembre 2007. Tale giorno da noi è infatti tristemente noto per la vicenda che ha riguardato Gabriele Sandri, tifoso laziale ucciso dai colpi esplosi da Luigi Spaccarotella.
Eppure, a distanza di poche ore, nella metro di Madrid, un ragazzo di soli 23 anni si è trovato a dover lottare contro un’orda pronta a strappargli la vita e, in pochi istanti, ha dovuto prendere in mano il proprio destino.
Ma andiamo con ordine. È il novembre del 2007 ed il movimento di riferimento di molti camerati della città è Democracia Nacional, partito fondato nel 1995 raccogliendo l’eredità storica di altre esperienze radicali. Nonostante l’insuccesso ottenuto alle urne nelle elezioni regionali tenutesi a maggio, l’attività di DN nelle strade della metropoli è incessante: nel quadro di una energica campagna anti-immigratoria condotta con altre sigle cittadine, indìce per la domenica 11 del mese un presidio identitario nel quartiere di Usera, distretto già da anni degradato e meta prediletta per l’acquisto di sostanze da parte dei tossicodipendenti della capitale. I militanti identitari vogliono infatti protestare contro la nuova invasione, stavolta di origine asiatica, che da qualche tempo interessa l’area.
Prevedendo una massiccia adesione all’iniziativa, i militanti dell’estrema sinistra locale decidono di organizzarsi per dare letteralmente la caccia ai possibili avventori dell’evento. Riuniti sotto la sigla del Coordinadora Antifascista Madrid, i “compagni” si organizzano per presidiare le linee della metropolitana che conducono al luogo della manifestazione nazionalista allo scopo di individuare e colpire presunti aderenti all’iniziativa.
Su uno dei convogli della linea M-3 viaggia proprio Josué. Il ragazzo, originario di Galdacáno, piccolo comune nella provincia della Biscaglia, nei Paesi Baschi, è un ex militare che aveva prestato servizio nel Regimiento de Infanteria inmemorial del rey n°1, e quel giorno decide, su appello dell’ala giovanile di DN, di prendere parte alla manifestazione. Giunto alla fermata di Legazpi, Josué vede salire un nutrito gruppo di appartenenti al collettivo di sinistra e decide di prepararsi al peggio. Estrae dalla tasca un coltello e attende l’evolversi della situazione. Gli antagonisti, avendolo probabilmente già adocchiato negli istanti precedenti all’apertura delle porte del vagone, in pochi attimi iniziano a confabulare tra loro indicando il giovane in tuta che li fissa appoggiato ad uno dei sostegni del treno. Subito molti iniziano ad estrarre armi di vario genere e ad indossare tirapugni. Uno di questi, evidentemente fomentato da alcune “compagne” e convinto di aver trovato una preda facile con cui mostrarsi spavaldo, si avvicina a Josué. Questi mantiene il sangue freddo e dopo qualche scambio di battute faccia a faccia decide di agire per primo e non dare tempo all’aggressore di portare il primo colpo. Immediatamente gli assesta un fendente che colpisce al cuore l’antifascista, Carlos Palomino, un 16enne di Vallecas.
Molti dei suoi non sembrano rendersi immediatamente conto dell’accaduto e, mentre alcuni trascinano Palomino fuori dal vagone, altri, arretrati verso l’esterno, tentano in ogni modo di circondare Josué. Subito iniziano infatti a scagliargli contro vari oggetti e provano ad assalirlo fisicamente. Uno di questi, in particolare, con un pugnale stretto tra le mani cerca di attaccare alle spalle il giovane nazionalista, il quale, prontamente, riesce a difendersi e a contrattaccare con un colpo di lama.
La situazione si fa sempre più critica, nonostante nel frattempo siano intervenute delle guardie metropolitane che cercano di sedare la situazione oramai degenerata. Gli antifascisti continuano il fitto lancio di oggetti e intensificano i tentativi di incursione fisica ai danni di Estébanez. Questi, tuttavia, nonostante la situazione di concitazione, continua ad ostentare sangue freddo. Approfittando di un estintore decide di azionarlo per creare una cortina fumogena ed abbandonare rapidamente il vagone evitando il massacro da parte dei membri del collettivo antifascista.
Scosso dall’accaduto e consapevole della situazione, non appena fuori dalla fermata si consegna ad una pattuglia di polizia, ma, una volta bloccato dagli agenti, viene raggiunto da alcuni esponenti del Coordinamento che lo colpiscono al volto rischiando di fargli perdere un occhio.
Al termine dello scontro fisico inizia tuttavia una nuova battaglia e si apre la gogna mediatica con i quotidiani iberici che titolano con frasi choc travisando la realtà dei fatti e parlando di brutale, immotivato e deliberato assassinio da parte di un estremista ai danni di un indifeso «giovane antisistema». Sin da subito Josué viene tradotto in carcere per la custodia preventiva in attesa di un processo che vede il culmine meno di due anni dopo, nell’ottobre del 2009. La corte, rigettando le istanze dei legali di Estébanez per legittima difesa, lo condanna a scontare 19 anni per l’omicidio volontario di Carlos Palomino e a 7 anni e 6 mesi per il tentato omicidio di uno dei sodali della vittima, oltre ad ingenti somme di denaro per il risarcimento di un terzo ferito e del padre e della madre del 16enne. Il tribunale di Madrid, asserisce infatti che non vi sarebbero state ragioni per le quali il nazionalista spagnolo avrebbe dovuto presupporre di essere a rischio di una imminente aggressione, e, come se non bastasse, evidenzia nel suo agire una discriminante dovuta all’odio ideologico, sentenziando, per la prima volta nel diritto spagnolo, l’aggravante prevista dall’articolo 22.4 del Codice Penale. A rincarare ulteriormente la pena è poi l’accrescimento della colpa dovuto, secondo i giudici, alla preparazione militare che avrebbe portato Josué a colpire l’antagonista rivolgendo la lama verso il basso.
A seguito della sentenza il patriota viene tradotto in un carcere militare dove resta per un anno alternando la permanenza nella struttura a lavori socialmente utili. Successivamente, viene disposto il trasferimento nella struttura penitenziaria di Cadice, nel Sud-Ovest della spagna, a circa 1000 km di distanza dalla propria famiglia. In seguito alle sollecitazioni dei propri cari è stato poi spostato in un carcere nel Nord della Spagna dove si è dedicato alla gestione di un laboratorio di ceramica e alla supervisione delle attività sportive del centro di detenzione. Durante questi anni Josué è stato soggetto a misure restrittive molto dure che gli hanno impedito la ricezione di libri e materiale considerato politico e ne hanno limitato le possibilità di incontro ai soli familiari.
Solo lo scorso anno, a 15 anni dai fatti del metrò di Madrid, Josué ha per la prima volta ottenuto un permesso-premio di cinque giorni.
Insomma, la storia di Josué non può, nonostante il tempo trascorso e i tempi che viviamo – carichi unicamente di ignavia e di apatico nichilismo -, lasciare indifferenti. Non può che farci sentire idealmente e sentimentalmente legati ad un ragazzo che per le proprie Idee ha visto estirpata la propria giovinezza, che per difendere la propria vita ha visto sacrificata la propria libertà nelle aule di un tribunale democratico. Il video di quei minuti, ancora oggi, non può non toccare le corde del cuore di chi, andando a riunione nella propria città non si sia domandato almeno una volta se, in una simile situazione, avrebbe avuto il coraggio di immolare tutto questo pur di non abbassare la testa.
Eppure sono stati davvero in pochi (fortunatamente) ad essersi trovati di fronte ad un simile bivio, e a noi tutti che non possiamo e non vogliamo dare una risposta con parole facili pronunciate sui tavoli dei pub, non resta altro da fare che continuare ad urlare ogni giorno, e l’11 novembre più che mai, «¡Josué Libertad!» e, raccontandone la storia, riaffermare quotidianamente che difendere la propria vita non è un delitto.
Alessandro Autiero