La questione salario minimo va osservata da diverse angolazioni per essere valutata in pieno.
Partiamo considerando che effettivamente in molti paesi europei il salario minimo è realizzato, anche se gli importi e le caratteristiche dello stesso variano da paese a paese. Il nostro articolo 36 della Costituzione è chiaramente indirizzato ad evitare qualsiasi tipo di sfruttamento in favore di una proporzionata e dignitosa retribuzione del lavoratore. Anche la direttiva europea è naturalmente indirizzata in tal senso, auspicando un ricorso alla determinazione del salario minimo, nel caso in cui la contrattazione non sia sufficiente e non raggiunga livelli quantitativi e qualitativi sufficienti. In tal senso, parrebbe che il progetto di un salario minimo coincida perfettamente con i dettami costituzionali e con le direttive europee.
Rimanendo per un attimo sulle linee generali: se è vero che la Costituzione e le direttive europee sono in linea con il salario minimo concettualmente, bisogna però analizzare il contesto nel quale è maturato l’articolo 36, e soprattutto metterlo in relazione con tutta la struttura socio economica costituzionale. La Costituzione evidenzia il principio fondamentale del contrasto allo sfruttamento, quindi sottolinea il bisogno fondamentale di una retribuzione dignitosa e correlata ai bisogni del lavoratore, non menziona però in alcun modo di fissare un salario minimo sotto il quale non andare, anzi, tecnicamente dava per scontato che la struttura politica progettata dovesse, insieme alla concertazione e alla contrattazione nazionale di categoria, fissare a seconda delle situazioni, i salari minimi per ogni categoria e specializzazione lavorativa. Tale progetto aveva l’indubbio pregio di arrivare di fatto ad un “salario minimo” di categoria, che tutti i datori di lavoro erano obbligati a rispettare dal momento che avessero deciso di applicare quel determinato contratto nazionale.
Il risultato finale di questo procedimento, che ricorderemo più avanti non è mai stato costituzionalmente completato, ma si è realizzato solo parzialmente, era quello di arrivare ad una determinazione economica, figlia di analisi di mercato, costo del lavoro, situazione economica del mercato, prospettive di sviluppo, pianificazione, analisi dell’occupazione, ecc. Si realizzava di fatto un sistema che, studiando l’economia del tessuto produttivo e del paese, determinava il compenso del lavoratore. Era quindi ovvio, che settori produttivi “ricchi” avevano la possibilità di corrispondere più denaro ai lavoratori, mentre settori economicamente poveri, che la tecnologia stava facendo diventare obsoleti e quindi destinati gradatamente a sparire, potevano mettere a disposizione minor denaro ai lavoratori per il loro impiego.
Naturalmente non era e non è un sistema perfetto, è sempre stato un sistema che lasciava dei buchi e non copriva o tutelava completamente i lavoratori. Numerosissimi storicamente i casi di interi comparti produttivi, diventati antieconomici che chiudevano, lasciando i lavoratori nelle mani dello Stato sociale e degli ammortizzatori sociali. Il limite della contrattazione alla fine è sempre stato questo: le parti troppo impegnate a strappare aumenti anche solo simbolici, non si accorgevano per tempo che l’economia di mercato avrebbe presentato il conto, e se per lavoratori giovani era comunque abbastanza facile riallinearsi in maniera produttiva nel mondo del lavoro, è altrettanto vero che i lavoratori più anziani, con tenori di vita figli di lunghissimi periodi di inquadramento nella stessa unità produttiva, avevano difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro. il reinserimento nel mondo del lavoro era difficile per i lavoratori anziani a causa della mancanza di competenze e del peso delle buste paga.
Ma come si è arrivati a questa struttura con alcuni limiti e però tante garanzie? Come detto tramite la parziale realizzazione dei principi costituzionali. Stiamo parlando dell’art. 1, dell’art. 2, nella parte della solidarietà politica, economica e sociale. L’art. 35 dove si parla di formazione ed elevazione professionale dei lavoratori, e dell’art. 99 sul CNEL. Tutte previsioni costituzionali realizzate almeno in parte, che hanno garantito ad almeno 3 generazioni di lavoratori di vedere le loro buste paga tutelate, il potere d’acquisto difeso, la possibilità di non diventare soggetto passivo del mercato del lavoro. La perfezione sarebbe stata la completa realizzazione del progetto costituzionale, quindi parliamo della realizzazione dell’art. 39 sulla rappresentatività sindacale e sulla personalità giuridica dei sindacati. Stiamo parlando della positivizzazione dell’art. 41 che detta i limiti sociali della proprietà privata, gli articoli 42 e 43 sugli espropri per interesse generale del tessuto produttivo e quindi dei lavoratori, l’art. 46 sulla collaborazione e sulla socializzazione delle imprese.
La mancata e completa realizzazione del progetto costituzionale, ha mostrato col tempo quanto è dura la legge del mercato se non ammaestrata da regole statali a tutela del tessuto produttivo. Infatti, non si era mai parlato prima degli anni 90 di salario minimo, le varie crisi produttive, la crisi della rappresentanza sindacale, l’affacciarsi sul mercato di multinazionali molto voraci, sono tutti fattori che hanno di fatto favorito lo sviluppo del concetto di salario minimo.
Il principio parte sbagliato già di fondo: pensare di disporre un salario minimo, valevole per tutte le categorie e un assurdo, ci sono e ci saranno sempre categorie più forti economicamente e categorie più deboli. Il livellamento è ingiustificato per due ordini di ragioni: se la categoria è forte sul mercato, ha ampi margini economici, non può prevedere compensi e contribuzioni simili a categorie in difficoltà o destinate a sparire; in secondo luogo, categorie economicamente forti, debbono partecipare allo Stato sociale in maniera proporzionalmente più impattante rispetto a categorie deboli.
Ricordando che la Costituzione a riguardo è molto precisa: nessun lavoratore deve essere messo in condizione di non potersi curare, di non poter difendere il diritto allo studio, di non poter accedere ai servizi riconosciuti come essenziali e fondamentali per la dignità. Approvare il concetto di salario minimo legale, ci porterebbe ad una situazione molto rischiosa: se il salario minimo fosse fissato troppo elevato, alcuni settori potrebbero risentirne negativamente, l’aumento del costo della manodopera in aziende con una competitività limitata, decreterebbe un’accelerazione della fine del settore, con una impossibilità di programmare un mirato e ottimale riassorbimento dei lavoratori impiegati.
Se per contro il salario minimo fosse fissato troppo basso, ci sarebbe un completo sgretolamento della struttura soci economica costituzionale, i datori di lavoro applicherebbero il salario minimo ignorando la contrattazione nazionale di categoria, che è bene ricordare purtroppo come detto non è stata realizzata completamente. Infatti i datori di lavoro ad oggi, tramite le loro rappresentanze, non sono obbligati ad applicare il contratto nazionale anche a causa della mancanza di personalità giuridica e di rappresentanza quindi dei sindacati dei lavoratori, non sono obbligati al rispetto delle previsioni contrattuali di categoria (il caso FIAT è assolutamente lampante), lo applicano solitamente per comodità e perché comunque dal punto di vista economico fornisce determinate garanzie, ma se noi predisponiamo un salario minimo più basso dei minimi tabellari previsti dalla contrattazione nazionale, senza obbligare i datori di lavoro all’applicazione del contratto di categoria, potremmo vedere applicato il salario minimo, potremmo vedere non più considerato il sindacato come controparte, con la totale perdita di rappresentatività del sindacato stesso.
Parlando a questo punto di numeri, e alla realtà, tralasciando la facile demagogia di alcuni sindacati, terminata la precisazione sulla Costituzione, occorre ulteriormente specificare che l’Europa non spinge prioritariamente per il salario minimo, anzi, mette dei paletti molto importanti a favore della contrattazione collettiva a tutela della stessa, cosciente appunto che la contrattazione collettiva comunque rimane il migliore strumento di difesa dei lavoratori. Le direttive europee specificano che: nel caso in cui uno Stato abbia meno dell’80% dei lavoratori coperti da contrattazione collettiva, dovrà essere predisposto un piano per la realizzazione del salario minimo. Ad oggi, in Italia, risultano più o meno coperti da contrattazione collettiva circa il 96% dei lavoratori. Cifra ben al di sopra del limite specificato dall’Europa, ovviamente occorre una ulteriore e più approfondita analisi dei nostri contratti nazionali, anche alla luce di una cifra di salario minimo auspicata in 9 euro orari.
Su questo tema, lo studio della Fondazione consulenti del lavoro è importantissima: “prendendo in considerazione i 63 contratti collettivi, individuati tra i più rappresentativi, indicando per ciascuno il minimo retributivo previsto per il livello di inquadramento più basso e a questo sono stati sommati i ratei di mensilità aggiuntiva (13a mensilità ed eventuale 14a) nonché la quota di trattamento di fine rapporto che, come è noto, costituisce una retribuzione differita. Secondo l’analisi svolta, 39 CCNL presentano livelli minimi retributivi superiori ai 9 euro, mentre 22 sono al di sotto di tale soglia. Questi ultimi, nella gran parte dei casi, hanno livelli che oscillano tra gli 8 e gli 8,9 euro (18 CCNL). Solo 4 prevedono livelli minimi retributivi al di sotto degli 8 euro. L’Istat nella recente audizione dell’11 luglio 2023 ha stimato in 3 milioni i lavoratori con retribuzioni minime inferiori ai 9 euro”.
Come sottolineano i consulenti del lavoro, se alla luce di questi dati, il salario minimo avrebbe un impatto assolutamente positivo per quella minoranza di lavoratori che si trovano ad essere retribuiti meno dei 9 euro ipotizzati dal nostro legislatore, è altrettanto vero che ci sarebbero dei risvolti assolutamente negativi: della questione rappresentanza abbiamo già accennato, della questione competitività del settore pure, bisogna poi ricordare un’altra cosa sempre ben evidenziata dallo studio dei consulenti del lavoro: “la retribuzione annuale di un individuo sia la combinazione di fattori differenti, tra cui la retribuzione oraria, l’intensità mensile dell’occupazione e la durata del contratto nell’anno (ovvero il numero di mesi con almeno un giorno di copertura contrattuale). Tutte e tre agiscono nel determinare le disuguaglianze retributive per effetto della loro variabilità interna e per il diverso modo di combinarsi a seconda della natura della posizione lavorativa.
L’analisi svolta dall’Istat evidenzia come a determinare la condizione di dipendente a bassa retribuzione siano soprattutto gli effetti legati a una ridotta durata dei contratti di lavoro e a un numero contenuto di ore lavorabili, oltre a quelli – pur rilevanti – legati a un basso livello di retribuzione oraria. Quasi la metà dei dipendenti a bassa retribuzione è del resto concentrata in tre specifici settori: i servizi di alloggio e ristorazione, i servizi di supporto alle imprese (in prevalenza agenzie interinali e imprese di pulizia) e i servizi alla persona (di cura, intrattenimento, istruzione). In questi casi, oltre alla retribuzione oraria, a contenere il livello delle retribuzioni è la componente legata all’intensità dei rapporti di lavoro, cioè al ridotto numero di ore lavorate su base annuale o mensile (in particolare nel caso dei servizi alle famiglie e nel commercio) e alla durata dei contratti (per i servizi di alloggio e ristorazione)”.
Quindi, a ben vedere le situazioni interessate da una retribuzione più bassa di quella ipotizzata dal salario minimo, potrebbero in parte andare ad aumentare indirettamente le spese dei nuclei famigliari o delle aziende che usufruiscono di questo personale che risulta sottopagato. Indubbiamente è ingiusto che alcuni lavoratori vengano retribuiti meno di una certa soglia, però, prima di attivare certe manovre dirette, bisognerebbe anche quantificare le conseguenze perché, se aumentando la paga oraria di una percentuale minima di lavoratori, faccio perdere potere di acquisto ad un numero molto più ampio di lavoratori, non saprei quanto il gioco possa valere la candela. Ed è anche per questo ulteriore motivo che la soluzione migliore non mi pare sia il salario minimo, ma al massimo il potenziamento e la realizzazione della struttura costituzionale.
Mi spiego meglio: l’esempio appena riportato chiarisce come non mai il concetto basilare che gli interventi sul mercato del lavoro non devono essere ideologici, ma studiati e mirati. Senza allargarci alle conclusioni che faremo successivamente, e ammettendo di predisporre un salario minimo che indirettamente va a diminuire il potere di acquisto di certe categorie, penso a chi ha figli in età scolare, chi ha bisogno di aiuto per gli anziani ecc., bisognerebbe però nel rispetto dei principi costituzionali, studiare i settori che forniscono servizi costituzionalmente rilevanti e far ricadere gli eventuali aumenti non solo su chi usufruisce del servizio, ma bensì su tutta la collettività, essendo la collettività il soggetto responsabile dell’ottimale rispetto di diritti costituzionalmente rilevanti. Se d’altronde negli ultimi dieci anni, le condizioni lavorative della zona euro sono peggiorate, l’utilizzo del salario minimo auspicato dall’Europa per recuperare potere d’acquisto, tutelare le fasce più deboli dei lavoratori, mettere un freno ai problemi causati dall’accelerazione tecnica, digitale e tecnologica, alla luce di quanto detto mi pare che concettualmente abbia profondi limiti. Se la struttura sociale e produttiva non è abbastanza reattiva a riallinearsi ad un mercato galoppante per guidarlo a lidi meno anti sociali, se permette di fatto operazioni di dumping salariale o fiscale, che sono tutti problemi e iniziative strutturali, non si può pretendere di raggiungere una soluzione ottimale con interventi che andranno a coprire solo una minoranza di lavoratori, rincorrendo di volta in volta situazioni problematiche.
La tutela dei lavoratori e della dignità degli stessi passa per l’applicazione di regole precise per tutta la zona euro, pianificazione industriale condivisa, partecipazione dei lavoratori alla democrazia diretta nelle due fasi, quella aziendale, quella statale e legislativa. D’altronde analizzando gli importi del salario minimo, si capisce subito la reale differenza degli importi, il salario minimo è sostenuto da una economia produttiva, maggiore è la forza di questa economia, maggiore sarà l’importo del salario minimo, e attenzione, andrebbero verificati i dati, ma presumo che, negli stati come Olanda, Francia, Irlanda, Belgio, Germania, (ovvero gli stati che hanno un salario minimo superiore ai 9 euro), il potere d’acquisto di quei 9 euro è assolutamente più significativo dei 4 euro della Grecia o dei 6 euro della Spagna.
Sono pronto a scommettere che il peso e l’importanza del salario minimo per combattere lo sfruttamento, è di principio inversamente proporzionale agli obbiettivi per il quale concettualmente nasce. Quindi, in conclusione, la battaglia del salario minimo è sicuramente una battaglia di retroguardia, il tessuto produttivo necessita di ben altro sia a livello italiano che europeo, ma pare ne sia cosciente la stessa Europa che, come detto, assegna alla contrattazione nazionale la preminenza e la precedenza. Ad ora, per soddisfare la voglia di fare la fronda di sindacati ottocenteschi, si può far finta di nulla e ignorare la situazione, ma la realtà è che con o senza salario minimo, il modo di tutelare i livelli retributivi e occupazionali è un altro, come detto profondamente strutturale, che vede una riforma radicale dei sindacati, una riforma dello Stato e una nuova concezione di lavoro nella comunità.
Gianluca Passera