Il Manifesto di Verona, il documento programmatico che sanciva i cardini della Repubblica Sociale Italiana, va ben oltre il semplice programma su cui fondare un’azione governativa. Sarebbe anche riduttivo definirlo come la carta ideologica e sistematica del fascismo.
Sicuramente ne rappresenta l’essenza profonda, in quanto conteneva la summa di idee che nel corso del ventennio erano state influenzate da una serie di pulsioni, spinte creatrici e innovative, il che conferma ulteriormente la natura dinamica, pragmatica e profondamente rivoluzionaria del fascismo. Una cosa che però in pochi notano del manifesto di Verona è la sua estrema attualità.
Il fatto non stupisce se si tiene conto della caratura degli uomini che lo idearono e dello spirito avanguardistico e prometeico di cui la loro genetica era portatrice; tuttavia, se vi sono delle fasi del fascismo che oggi in molti direbbero adatte soltanto al contesto in cui si operava allora, sulle tesi di Verona va operato un ragionamento totalmente opposto, ovvero che esse racchiudono nelle parole che le compongono la potenza dell’eternità.
Il perché di questo, se non si è persa la bussola, l’asse centrale da cui tutte le idee e le prassi quotidiane dovrebbero derivare, è ovvio, ovvero che il fascismo non poteva non trovare la perfetta sintesi, principio dal quale era partito fin dal momento della sua nascita, nel momento in cui si trovava a combattere la guerra per l’Europa
L’unità europea fu sempre una spinta animatrice della cultura fascista e fin dal 1925 Mussolini in persona si adoperò al fine di unificare l’Europa. Quando vi fu quella causa motrice che santificò definitivamente la guerra, il risultato, se pur in un contesto in cui si sapeva che si andava incontro ad una sconfitta, dal punto di vista culturale, non poteva che essere un’eccellenza assoluta.
Leggendo l’art 4 circa l’organizzazione del potere decisionale si trovano perfettamente uniti principi propri dell’eterna tradizione greco-romana, ovvero la necessità di una gerarchia e di un’unicità e contestualmente la valorizzazione di queste in un contesto partecipativo delle spinte della polis. Il che non è in contrasto con l’azione operata in precedenza dal regime, nonostante venisse riconosciuto nel medesimo articolo la parziale negatività di un metodo percepito troppo autoritario e nonostante l’azione di Mussolini sempre avesse tenuto conto delle componenti che animavano la società italiana, tanto da essere tacciata di eccessiva compromissione, se è vero com’è che nei periodi di decadenza estrema,non può che essere necessaria l’unicità di comando come forza rettificatrice.
Trattasi di un evidente patrimonio millenario romano, visto che furono i romani a stabilire che vi fosse, anche per casi di emergenza di gran lunga inferiori a quello dell’Italia degli anni ’20, la figura del dictator.
Leggendo l’art 10 cosa si nota se non l’idea dell’economia e del risparmio individuale come ingegno del singolo che va poi a inserirsi nella comunità tutta? Il tutto che va poi ad associarsi agli articoli 8 e 10 non rappresenta che la perfetta continuità delle forme di corporativismo sperimentate dalla Repubblica romana e dalle corporazioni medievali in tutta Europa.
Le considerazioni potrebbero continuare, ma vi sono soprattutto alcuni dati fondamentali da sottolineare, in seguito a questa disamina. Il primo è che quanto affermava Romualdi sulla natura del fascismo, che era il solo movimento in grado di far rinascere l’Europa, qui evidentemente trova un’ulteriore conferma.
L’idea stessa corporativa e partecipativa non può che essere europea. Lo tenga bene a mente chi cerca quindi oggi modelli importati da altre parti e chi vede in sistemi degenerati e ipercolettivisti la risposta alle problematiche odierne.
Il secondo è che la percezione dell’essere europei come spirito oltre alla semplice genetica è ben visibile nell’art. 9, che racchiude quanto fin qui esposto, in virtù della creazione di una futura comunità europea, visto che si cita in modo inequivocabile l’esclusione da essa dell’Inghilterra, da sempre esercitante come forza disgregatrice , individualista e sovversiva, quindi inconciliabile e incompatibile con lo spirito di Roma forgiatore di una nuova risorgenza imperiale europea.
Come considerazione finale è necessario ammonire i tanti certamente non sostenitori dei vincitori della seconda guerra mondiale che sottovalutano, magari per distrazione e superficialità, tale fase culturale della Repubblica Sociale Italiana, partendo dal presupposto che poi la forza militare principale era dei tedeschi.
L’errore di tale visione non consiste soltanto nel non dare il giusto tributo a chi, pur meno forte militarmente, diede prova di grande onore, ma anche nel non tenere conto di un simbolo che in quella fase storica si stava ripresentando ciclicamente e che ancora oggi potrebbe sintetizzare una chiave di svolta, ovvero la fusione intorno ad un asse centrale dello spirito romano e del vigore germanico.
Furono queste le componenti che portarono alla rinascita dell’Europa dopo la caduta dell’Impero Romano. Furono queste le linee di vetta di Carlo Magno, e non è una coincidenza che il fascismo come fenomeno che nasceva romano per poi conquistare l’Europa si incarnasse in guerra nella forza germanica, che fin dai suoi esordi si ispirò a Mussolini.
Se poi si rammenta alla memoria quanto scriveva Evola, ovvero che lo spirito ario indoeuropeo si incarnò nei romani e la forma fisica e caratteriale arii si incarnarono nei popoli germanici, tutto trova ulteriore conferma e coerenza.
Ferdinando Viola