NOSTRE ORIGINI

Iperborea, secondo fonti greche (Esiodo, Erodoto, Pindaro, Ecateo da Mileto ed altri ancora), è la terra felice situata nell’estremo Nord d’Eurasia, illuminata dal sole per sei mesi l’anno. È il luogo, governato secondo eterne armonie dal dio Apollo, della primordiale Comunità umana, che si è irradiata, nel tempo, verso Sud e verso Est. È la patria originaria – Urheimat dei Popoli Indoeuropei, creatori, nell’Ellade, a Roma, in Oriente, in Egitto e altrove delle più elevate e raffinate forme di Civiltà.

Al mito iperboreo (nel senso forte e archetipico del termine) si riferisce esplicitamente Friedrich Nietzsche (1844-1900) nell’incipit del suo “esplosivo” Anticristo (1895):

Guardiamoci negli occhi. Siamo Iperborei e ben sappiamo quanto diversamente dagli altri affrontiamo l’esistenza. «Né per terra, né per mare, troverai la via che mena agli Iperborei», come Pindaro disse di noi. Al di là del Nord, del cielo, della morte la «nostra» vita, la «nostra» felicità… Abbiamo scoperto la serenità nel distacco, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita del labirinto attraverso migliaia d’anni. Chi la trovò? L’uomo moderno forse? «Io non so né uscire né entrare», sospira l’uomo moderno… Eravamo malati di «questo modernismo, malati della pace malsana, del vile compromesso, di tutto il virtuoso sudiciume del moderno sì e no. Questa tolleranza e ampiezza del cuore, che tutto «perdona» perché tutto comprende, è per noi come il vento di scirocco. Meglio vivere tra i ghiacci che in mezzo alle virtù moderne e agli altri venti del Sud! Noi siamo stati abbastanza coraggiosi; non abbiamo avuto indulgenza né per noi né per gli altri: perciò per molto tempo non abbiamo saputo «dove» andare col nostro valore. Eravamo diventati tristi, ci chiamavano fatalisti. Il «nostro» Destino era la pienezza della tensione, la fermezza delle forze. Avevamo sete di lampi e di fatti, rimanevamo il più lontano «possibile» dalla felicità degli incoscienti, dalla loro «rassegnazione» … La nostra atmosfera era carica di tempesta, si intorbidava la nostra stessa natura, «perché non avevamo una via». Ecco la formola della nostra felicità: un sì, un no, una linea retta, un «fine…»

Giuseppe Scalici

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