Il problema del “come” e il problema del “perché”
“Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto tra mezzi e fini, l’idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che in genere si danno per scontati e che si suppone si spieghino da sé. Essa non attribuisce molta importanza alla questione se in sé gli scopi siano ragionevoli. Se si preoccupa dei fini (ammesso che lo faccia), dà per certo che anche essi siano “ragionevoli” in senso soggettivo, cioè che rispondano all’interesse del soggetto per l’autoconservazione: si tratti dell’autoconservazione dell’individuo singolo o di quella della comunità, dalla cui sopravvivenza quella dell’individuo dipende (1)”. Così Max Horkheimer delinea i tratti della ragione soggettiva o strumentale, tipica della società capitalistica, quella ragione della quale potremmo dire che la sua domanda fondamentale è “come fare?” e quasi mai “perché fare?” Lo sviluppo dell’informatica ha potenziato la razionalità strumentale e ha, di fatto, marginalizzato ogni domanda non soltanto sui fini dell’azione economica, sociale e politica, ma anche ogni domanda sulla coerenza fra finalità dichiarate (nelle carte dei diritti) e finalità effettivamente perseguite. Si tende a dare per scontato non soltanto quali fini perseguire, ma anche che essi, quali si siano, siano effettivamente perseguiti. Ne consegue, ancora oggi, sul piano delle relazioni internazionali non meno che sul piano delle politiche interne, una continua contraddizione fra quel che si dichiara di fare e quello che si fa: si dichiara di agire per la pace e si creano costantemente cause di guerre (non solo la guerra russo-ucraina; c’è anche il Sudan e ci sono molti altri teatri bellici nel mondo); si dichiara di considerare la vita umana inviolabile, ma si fa ben poco per salvare concretamente la vita di chi attraversa il Mediterraneo non tanto alla ricerca di una vita migliore, ma alla ricerca della pura e semplice vita, diventata impossibile nei paesi di origine; si rivendica il dovere di tutelare l’ambiente, ma non si esita di fronte all’uso concreto di combustibili fossili, di fronte alla deforestazione e si riparla di uso civile del nucleare, come se non esistesse il problema delle scorie. La contraddizione è tra parole e fatti; essa è accompagnata da una adorazione quasi estetica dei mezzi: si ammira la velocità delle comunicazioni via internet, si è estasiati di fronte ai miracoli dell’economia finanziaria. Si cede senza problemi soverchi di fronte alle forme e i contenuti passano in secondo piano – nel migliore dei casi.
Questa è una storia che viene da lontano, ci avvertono i filosofi della storia, da Marx a Spengler, a Evola, a Horkheimer e Adorno. Proprio questi ultimi hanno preso di petto il problema già sul finire della Seconda Guerra Mondiale con un libro ripubblicato nel 1947 e nel 1969 e presente, in traduzione italiana dal 1966: Dialettica dell’Illuminismo. Frammenti filosofici (2).
Dialettica dell’Illuminismo
“L’evoluzione, analizzata nel libro, verso un’integrazione totale, è interrotta, ma non troncata; essa minaccia di attuarsi attraverso guerre e dittature. La prognosi del rovesciamento, ad esso collegato, dell’illuminismo in positivismo, nel mito della pura fattualità, nonché l’identità di intelletto e ostilità allo spirito sono state confermate in modo lampante”, si legge nella premessa all’edizione tedesca del 1969. Guardando le cose dall’angolo visuale del 2023, non si può fare altro che constatare che l’integrazione totale ha fatto passi da gigante, come integrazione dall’alto, integrazione padronale o oligarchica, se si preferisce, e come integrazione dei “non-padroni”, in basso. La si può denominare universalizzazione della “società dello spettacolo”, con Débord e i Situazionisti, oppure “occidentalizzazione del mondo”, con Serge Latouche e, per concretizzare, si può parlare di un polo euro-statunitense, di un polo russo, di un polo indiano per indicarne gli agenti politici, diplomatici, tutti ugualmente capitalisti, anche se diversamente capitalisti, tutti in potenziale conflitto (e dalla potenza si è passati all’atto, aristotelicamente, con l’aggressione russa all’Ucraina). Dal punto di vista concettuale, il mondo sembra unito, ai vertici dalla realtà dello sfruttamento capitalistico. Sfruttamento che non si limita a distruggere la socialità della specie, ma, come documentato a partire dalla ricerca del MIT svolta per il “Club di Roma” e pubblicata nel 1972 con il titolo I limiti della crescita, distrugge la basi biologiche stesse della sopravvivenza della specie sulla Terra.
Eppure la promessa dell’Illuminismo era realizzare il regno della ragione a vantaggio di ogni essere umano; sarebbe errato, qui, contrapporre all’illuminismo la metafisica tradizionalistica della storia che, di fatto, non ha avvantaggiato l’essere umano più di quanto non abbia fatto e non stia facendo la ragione illuministica. Chiunque conosca la storia concreta degli Stati di Antico Regime (che sono la dimensione tradizionale meno lontana nel tempo da noi), le condizioni medie di vita, soprattutto igienico sanitarie, sa che non c’è molto da rimpiangere; che siano state costruite metafisiche giustificatorie della sofferenza o esaltazioni delle difficoltà materiali e delle guerre e della miseria è soltanto analogo alle attuali esaltazioni della flessibilità, della dimensione agonistica della concorrenza economica e delle guerre “giuste”. Non c’è cosa che la razionalità strumentale non possa giustificare, come aveva compreso Pareto nella sua teoria delle “derivazioni” e non c’è cosa che il soggetto collettivo, la massa, la folla non sia pronta ad applaudire o a esecrare, se debitamente istigata, come rilevato già da Gustave Le Bon (Psychologie des foules, 1895) e da Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analysis, 1921).
Piuttosto, si tratta di seguire l’Illuminismo nel suo percorso storico-concettuale per 2comprendere perché l’umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie.” (3) Qui Horkheimer e Adorno formulano una tesi non comune: l’Illuminismo non inizia né nel XVIII secolo, né, come taluni hanno suggerito, già alla metà del XVII secolo, ma inizia con la sistemazione della pluralità dei miti in quel “sistema” che è costituito dai poemi di Omero. Il che equivale a dire che l’Illuminismo si identifica con l’origine stessa della cultura occidentale. Non è una tesi da storici del pensiero, ma è una tesi filosofica; uno storico del pensiero avrebbe molto da obiettare (e in effetti, molte sono state le obiezioni degli specialisti; non diversamente erano andate le cose con la “morfologia della cultura” di Oswald Spengler); ma un filosofo comprenderebbe subito che si tratta di cogliere il significato dell’Illuminismo per la vita umana, per la società umana, significato che può prescindere sia dall’utilizzo di una certa lingua, sia dall’utilizzo di una certa terminologia, perché la specie è unitaria, per quanto culturalmente differenziata e le sue domande di fondo sono traducibili non soltanto da una cultura a un’altra, ma anche da un’epoca a un’altra. Dunque: quali sono le caratteristiche dell’Illuminismo? “Tutto ciò che non si risolve in numero e in definitiva nell’uno, diventa, per l’Illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina nella letteratura” (4); ma “i miti che cadono sotto i colpi dell’Illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso”, dato che il mito “voleva dire l’origine delle cose”, voleva “spiegare”, nei termini della una scientia universalis di cui scriveva uno dei padri riconosciuti dell’Illuminismo del XVIII secolo, Francis Bacon (il quale non aveva difficoltà, infatti, quasi a presentare la nuova scienza della natura in veste mitica ne De sapientia veterum del 1609) (5). Se è così, il mito è già riduzione della molteplicità all’unità, cioè è già “sistema”, e in esso opera lo “spirito sistematico” che caratterizzerà l’Illuminismo settecentesco. In conseguenza di questa caratterizzazione, Horkheimer e Adorno possono affermare che “il mito trapassa nell’Illuminismo e la natura diventa pura oggettività” (6) con cui confrontarsi, con cui lottare, che si tratta di assoggettare all’essere umano. Ma per assoggettare la natura occorre, fin dal principio, assoggettare altri esseri umani. L’Illuminismo, così, “è più totalitario di qualsiasi sistema” (7). Esso arriva, addirittura, a dissolvere i concetti di spirito, di verità e persino il concetto di “Illuminismo” per far trionfare la forza organizzativa della ragione strumentale. In questo senso, Odisseo, il protagonista del secondo grande poema di Omero, con il proprio peregrinare, persegue, come perseguirà nel XVII secolo Robinson Crusoe nel romanzo di Daniel Defoe, “il proprio interesse atomistico”, in lotta con le potenze divine che lo ostacolano, ma con l’appoggio di potenze divine concorrenti (Atena). Ma è parimenti illuministico il personaggio di Juliette creato da Donatien A. F. De Sade nel 1797; sennonché la razionalità strumentale è messa al servizio del crimine, non già della virtù, come avviene nella Critica della ragion pratica di Immanuel Kant; se Kant rivendica la libertà come dato di fatto della pura ragione, De Sade rivendica il crimine come dato di fatto della pura ragione che rispecchia la realtà naturale; una chiara anticipazione, quest’ultima del discorso di Friedrich w. Nietzsche il quale “esalta i potenti e la loro crudeltà verso l’esterno, cioè verso tutto ciò che non appartiene a essi (in particolare, nel secondo saggio della Genealogia della morale. L’Illuminismo si declina sia nel senso della liberazione dell’uomo dalla superstizione, sia nel senso dell’apologia del dominio, perché ha la stessa potenza del mito, la potenza totalizzante. La ragione e il mito coincidono nell’attuazione del dominio che si manifesta con pienezza nell’”industria culturale”: “Film, radio e settimanali costituiscono un sistema” (8). Un sistema: come il mito rielaborato da Omero, come l’immagine della scienza di Bacone. La scienza, che è democratica, permea la comunicazione radiofonica (si ricordi che la prima edizione del libro è del 1944 e che la terza edizione è del 1969) e “rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli autoritariamente ai programmi tutti uguali delle varie stazioni” (9): la piena società dello spettacolo, scriverà due decenni più tardi Débord. Per tutti “è previsto qualche cosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono coniate e diffuse artificialmente” (10) in una sorta di totalitarismo soft, il totalitarismo post-bellico, che rende funzionale al lavoro anche il tempo libero; in questo immenso sistema integrato di parti non c’è bisogno di un “partito unico”, di un’organizzazione politica unitaria: il modo stesso di rapportarsi alla realtà è stato reso unitario e funzionale al profitto di pochissimi, “lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione” (11). In modo perverso, ma si è realizzato, così, l’uomo come “essere generico”, perché “ognuno è solo ciò per cui può sostituire ogni altro: fungibile, un esemplare” (12). Ma questo è lo scenario del mito, con le sue figure ideal-tipiche e con lo zero assoluto dell’individualità, riprodotto in pieno XX secolo in un sistema complessivamente totalitario, pur dopo una guerra contro i totalitarismi.
Di fronte all’abisso
La dialettica dell’Illuminismo rischia, dunque, di condurci non al “superumano”, non al “subumano”, ma al “non-umano” che è il “regno dei mezzi senza scopo”, ovvero al trionfo pieno dell’economia capitalistica. La potenza è fine a sé stessa, esattamente come il denaro, che ne è il principale mezzo, diventa fine a sé stesso; essa si è svincolata da qualsiasi finalità che non sia l’arricchimento di una minoranza e l’abbrutimento della maggioranza: su scala mondiale, non semplicemente su scala nazionale. Un processo che caratterizza l’antropocene, l’èra in cui l’essere umano diviene addirittura signore dissennato del clima, in un processo dialettico-negativo di autodistruzione.
Questa sembra essere l’eredità dei secoli XIX e XX al XXI secolo fin dal momento “aurorale” del mito. Una reazione, un contro-movimento, è possibile, ma non se ne intravvede il soggetto politico, né le linee secondo le quali il soggetto politico potrebbe procedere, se non quella felicità sociale che sarebbe costituita da un recupero dell’epicureismo, in larga parte ancora da pensare (13).
Francesco Ingravalle
1. Cfr. Max Horkheimer, Eclissi della ragione (1947, 1967), tr. it. di Elena Vaccari Spagnol, Torino, Einaudi, 1969, p. 11.
2. Cfr. M. Horkheimer- T. Wisengrund Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, tr. it. di Lionello Vinci, Torino, Einaudi, 1966, rist. 1973.
3. Cfr. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 3.
4. Cfr. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 16.
5. Riferendosi a Omero e a Esiodo Bacone scrive “Confesso volentieri e in tutta semplicità di essere di questa opinione: che in non poche favole degli antichi poeti si celi fin dall’origine un mistero e un’allegoria; sia perché preso dalla venerazione del tempo passato, sia perché in alcune favole scorgo tale e tanta evidente similitudine e parentela con la cosa specificata (ora nella stessa struttura della favola, ora nella proprietà dei nomi con i quali personaggi e attori della favola si mostrano insigniti e quasi marcati), che nessuno fermamente potrebbe negare che quel senso non sia precostituito e pensato dall’inizio.” Cfr. F. Bacone, Scritti filosofici a cura di Paolo Rossi, Torino, UTET, 2009, p. 446.
6. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 17.
7. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 33.
8. Cfr. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 130.
9. Cfr. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 132.
10. Cfr. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 133.
11. Cfr. M. Horkheimer- T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 148.
12. Cfr. M. Horkheimer-T. Wiesengrund Adorno, Dialettica, cit., p. 157.
13. Ma si veda il saggio di Otto Neurath, Marx und Epikur, tr. it.Marx ed Epicuro, in Giuseppe Scalici, Lucrezio filosofo della totalità, Milano, Ritter, 2021, pp. 157-166.