Intervista al prof. Gian Piero Joime, membro del Comitato Scientifico di Kulturaeuropa.
Professore, stiamo attraversando l’epoca delle grandi transizioni e delle grandi trasformazioni. Qual è, attualmente e in prospettiva, l’effettivo scenario in cui sono chiamati a muoversi i Players internazionali?
Il futuro politico globale prospettato dall’Onu e dall’Unione Europea sembra decisamente guidato dalla strategia della transizione ecologica, basata rispettivamente sugli impianti culturali e normativi dell’Agenda 2030 e del Green Deal, e in Italia soprattutto del Pnrr, e quindi su un insieme di orientamenti, direttive, regolamenti, tecnologie, innovazioni e progetti finanziari, finalizzati alla trasformazione sostenibile dei mezzi e dei modelli di produzione e di consumo.
Il futuro delimitato dalla “grande transizione” presenta certamente grandi opportunità, ma anche diverse minacce per il destino di territori e imprese che non ne coglieranno le potenzialità di riposizionamento politico ed economico, limitandosi piuttosto all’adozione del nuovo paradigma senza guidarlo, senza avviare la modernizzazione competitiva di tutte le filiere economiche, anzi delegando ad altre potenze la direzione strategica, e subendo così la forte dipendenza estera da culture, materie prime, tecnologie e componenti.
La grande transizione è certamente una grande opportunità, ma può essere anche una grande minaccia per il destino di tutte le filiere economiche, per la forte dipendenza estera da materie prime e componenti, come ampiamente mostrato nel corso della pandemia.
Il modello della transizione ecologica è una questione di potere industriale, basato sul controllo delle catene del valore della filiera digitale ed energetica: infatti molte grandi imprese globali hanno trasformato il proprio core-business in eco-business – si pensi alle fonti rinnovabili per le compagnie energetiche, alle automobili elettriche per il settore automotive – rivitalizzando così cicli di vita molto maturi, o sostituendo intere filiere produttive locali incapaci di rispondere al cambiamento.
In sintesi, non c’è transizione ecologica senza innovazione industriale. E il mancato adeguamento di imprese e territori al nuovo paradigma tecno-ecologista, basato su norme e potere industriale, costituisce un forte rischio di marginalizzazione delle stesse imprese e dei territori locali nel sistema competitivo globale, ponendo il rischio di una transizione sostitutiva della cultura e della tradizione produttiva locale in nome dell’adeguamento a standard ecologici o eco-industriali internazionali.
La transizione ecologica impone così più che una velleitaria resistenza, lo sviluppo un nuovo paradigma tecnologico-industriale, fondato sulle eco-innovazioni. In questo senso il rafforzamento delle produzioni nazionali e delle identità socio-culturali è a pieno titolo attività essenziale per un modello di sviluppo sostenibile, equilibrato e compatibile con il benessere dei diversi contesti locali. La capacità di governo locale e di controllo delle catene del valore diviene così determinante per lo sviluppo sostenibile.
L’Europa di oggi è un soggetto politico ancora molto controverso, ma è chiamata a confrontarsi sul piano internazionale con veri e propri Imperi ben organizzati. L’Autonomia Strategica Europea è divenuta ormai improcrastinabile?
In questo scenario è sicuramente di grande importanza strategica la ricerca dell’equilibrio tra la transizione ecologica e la tutela continentale e nazionale delle catene del valore, per non assistere passivamente alla possibile sostituzione dalla dipendenza per le fonti fossili, e dai paesi che ne detengono i giacimenti, alla dipendenza dei sistemi e delle componenti per le rinnovabili, e dai paesi che ne detengono le tecnologie.
Oggi lo stato dell’arte nell’orizzonte della Grande Transizione è che l’economia globale dipende per il 92% dalle imprese taiwanesi nella produzione di chip di ultima generazione, e la Cina ospita il 75% della capacità globale di fabbricazione di celle per le batterie elettriche…
La grande transizione digital-ecologica pone quindi evidentemente in primo piano la tutela delle catene di approvvigionamento, come fattore determinante per la sicurezza nazionale; come sembra sappiano molto bene negli Stati Uniti, dove la dipendenza dalle forniture estere rappresenta, secondo Washington, una minaccia, proveniente soprattutto dalla Cina, al ruolo di leadership economica, tecnologica e militare.
Quasi per paradosso, sembra proprio che la grande transizione digital-ecologica, fondata su principi e tecnologie globali, spinga al ritorno di forme di protezionismo delle economie nazionali, al ritorno del ruolo dello Stato, almeno nel caso statunitense, per la ridistribuzione dei poteri economici. Ecco così che il 24 febbraio 2021, il presidente degli Stati Uniti, citando in quell’occasione il proverbio “Per mancanza di un chiodo, il ferro di cavallo è andato perso”, ha firmato l’ordine esecutivo 14017, “America’s Supply Chains”, per avviare una revisione completa delle catene di approvvigionamento critiche del Paese per identificarne i rischi, affrontarne le vulnerabilità e sviluppare una strategia per garantirne la sopravvivenza agli attacchi competitivi.
Ma “America’s Supply Chains” è stato solo il primo atto del ritorno americano alla sovranità industriale; è stato l’atto di base per l’approvazione dell’Inflation Reduction Act (Ira) dell’estate 2022: una legge che definisce da un lato i perimetri della competizione tra Cina e Stati Uniti nella transizione energetica, per contenere l’ascesa cinese nelle filiere industriali delle energie pulite. E dall’altro che intende affermare la posizione dominante dell’industria verde americana nei confronti di tutti i competitor globali, anche del partner europeo.
Dunque L’Ira è la risposta americana allo strapotere cinese nello scenario della transizione energetica globale.
L’Ira è dotato di un budget di 738 miliardi di dollari, dei quali 391 miliardi saranno spesi per l’energia e il cambiamento climatico. L’Ira americana ha il pregio di chiarire senza fraintendimenti la direzione statunitense per la riconquista del potere industriale mondiale nell’era della transizione ecologica: sviluppare adeguate capacità tecnologiche e produttive nazionali per raggiungere gli obiettivi ambientali, fortificando le filiere produttive statunitensi; e anche attraendo investimenti europei in territorio americano.
La BMW ha annunciato un investimento di quasi 2 miliardi di dollari nella Carolina del Sud alla fine dello scorso anno, mentre Enel ha annunciato che costruirà una fabbrica di moduli e celle fotovoltaiche negli Stati Uniti per un investimento stimato di circa un miliardo di dollari e che dovrebbe creare 1500 posti di lavoro, con una capacità produttiva iniziale di almeno 3 GW all’anno e che può aumentare fino a 6 GW. Northvolt, una azienda svedese leader in Europa nel settore delle batterie a litio, ha dichiarato di voler espandere la produzione in America. Iberdrola, una società energetica spagnola, sta investendo il doppio in America rispetto all’Unione Europea.
In questo quadro, il primo febbraio la Commissione europea ha presentato il “Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age”, considerato la risposta europea all’Ira americana. Il piano europeo si inserisce nel contesto del Green Deal europeo e del REPowerEU, e si basa su alcuni assi: contesto normativo semplificato, accelerazione dell’accesso ai finanziamenti, miglioramento delle competenze e libero scambio per catene di approvvigionamento resilienti. Il quadro è completato dal Critical Raw Materials Act, la legge sulle materie prime critiche, che mira a garantire un accesso sufficiente a quei materiali, come le terre rare, che sono vitali per la transizione energetica. Dietro l’accelerazione ai finanziamenti si nasconde in realtà un punto controverso tra gli stati membri, ovvero l’allentamento delle norme sugli aiuti di Stato, tema su cui la commissione sta consultando gli Stati Membri.
Sembra un po’ poco rispetto ai grandi cambiamenti in atto, e soprattutto con una prospettiva di lentezza che appare inadeguata ai rapidissimi tempi moderni. In questo scenario di vera e propria guerra economica per la conquista delle catene del valore delle energie rinnovabili, l’Unione Europea, partendo da una situazione di dipendenza informatica ed energetica, vorrebbe posizionarsi da protagonista prevalentemente culturale del grande cambiamento: con il Green Deal e le conseguenti direttive e piani operativi, come la Next Generation UE, e i connessi piani nazionali, centrati soprattutto sul digitale e l’energetico.
Ecco quindi che in Europa si producono diligenti piani pluriennali, con tanta burocrazia continentale e nazionale, e tante cabine di regia per la composizione degli interessi pubblici e privati dei tanti Stanti Membri, assai spesso divergenti; ne emerge una super-struttura burocratica, fiscale e finanziaria, che indubbiamente rischia di appesantire il processo decisionale e operativo e di ampliare il divario con i competitor globali, già evidente semplicemente osservando la provenienza dei prodotti e delle componenti tecnologiche della filiera del digitale e delle energie rinnovabili, in grandissima e prevalente parte di origine cinesi e americani.
Mentre l’Unione Europea redige il Net Zero Act e predispone la sua potente struttura burocratica, la Cina come detto viaggia velocissima, tanto nella conquista delle miniere mondiali della materie prime, quanto nelle produzione di tecnologie e componenti delle diverse filiere dell’energia e della mobilità elettrica, e nella introduzione di dazi per proteggere l’industria nazionale; senza per questo ridurre l’impegno nel nucleare. E gli Stati Uniti continuano a investire nella conquista di miniere di terre rare e cobalto, ovunque nel mondo, nella riconquista e nella protezione della supply chain nazionale, e nella costante produzione di eco-innovazioni; senza per questo ridurre l’impegno, anzi rafforzandolo, nel gas, nel petrolio e nel nucleare.
L’autonomia energetica europea è improcastinabile, ma deve trovare una forma di governo adeguata a un Tempo sempre più veloce.
In merito alla questione del gas e del nucleare, quali prospettive abbiamo?
Mentre per il gas all’Europa, fermo restando la dipendenza dalle importazioni, non rimane che diversificare il mix dei paesi fornitori e ampliare, con i rigassificatori, la capacità di accumulo, la situazione sembrerebbe più dinamica nel settore del nucleare.
Diversificazione delle fonti, disponibilità di energia di base, flessibile e decarbonizzata ed economicità (se confermata), impongono di considerare anche il nucleare nelle possibili scelte, non solo per i paesi che già ne dispongono, ma anche per gli altri. Gli scenari delle maggiori agenzie internazionali vedono la permanenza del nucleare nel mix produttivo mondiale come necessario per assicurare la disponibilità di energia elettrica decarbonizzata, baseload e in grado, in una certa misura, di seguire con flessibilità la domanda, a complemento delle tecnologie rinnovabili.
Tale necessità è ancora più evidente o, quanto meno, considerata con maggiore attenzione, nella situazione di crisi odierna, nell’ottica di riuscire a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti attraverso la diversificazione e lo sfruttamento di risorse domestiche. Prendendo a riferimento lo scenario NZE della Agenzia Internazionale dell’Energia, la potenza di impianti nucleari installata nel mondo raddoppia da oggi al 2050, arrivando a più di 800GW dai circa 400GW odierni.
La maggior parte (90% circa) della nuova capacità (al netto di quella che andrebbe a compensare le centrali che verrebbero ritirate dalla rete e soggette a decommissioning) verrebbe da Cina ed altre economie emergenti; le economie avanzate vedrebbero un aumento del 10% della potenza, con i ritiri che verrebbero più che compensati da nuove installazioni grazie a nuovi programmi di sviluppo principalmente negli Stati Uniti, Francia, Inghilterra e Canada.
La disponibilità di energia nucleare verrà dunque garantita sia da estensioni della vita utile degli impianti esistenti, laddove possibile ed economicamente efficiente, sia dalla costruzione di nuove centrali. In termini di tecnologie, questo verrà assicurato sia da centrali nucleari “convenzionali” della tipologia di quelle attualmente in costruzione (grossi impianti ad acqua leggera di generazione III o III+), sia, con grande probabilità, da una nuova filiera attualmente in fase di sviluppo, quella degli Small Modular Reactors (SMR). Gli SMR sono una classe di impianti nucleari molto variegata in termini di tipo di combustibile, refrigerante, moderatore e configurazione (unità singola, multi-unità/modulo, a terra o galleggiante), caratterizzati da una potenza di impianto ridotta (convenzionalmente dai 10 ai 300MW) rispetto alle centrali nucleari normalmente impiegate.
Appare evidente che anche in questo emergente settore del nucleare di piccola taglia, o si comincia a studiare e partecipare al dibattito, e da subito, o non resta che assistere da spettatori.
In tutta Europa, ma soprattutto in Italia, abbiamo sostituito il modello industriale con quello impiegatizio, ovvero l’industria con il terziario avanzato. Occorre un ritorno a modelli produttivi autoctoni?
In questo scenario di squilibrio permanente segnato soprattutto dalla rivoluzione energetica e dall’aggressività competitiva di cinesi e americani, occorrerebbe al più presto ricostruire la nostra capacità di produzione e innovazione, con misure ad hoc – tasse, tutele del lavoro, standard ambientali – e mirate per ogni settore strategico, che aiutino a plasmare la globalizzazione per garantire che funzioni per gli europei e gli italiani come lavoratori e come famiglie, non semplicemente come consumatori.
Il PNRR e il Piano Mattei sono armi a disposizione dell’Italia? In che modo potrebbero diventare realmente efficaci?
L’Italia nella nuova era della transizione ecologica può giocare il ruolo del grande protagonista nel riposizionamento del sistema energetico mondiale, sia per l’attuale consistenza nazionale del sistema del rinnovabili sia per la presenza di grandi imprese di grande rilevanza internazionale, ancora a controllo pubblico – Enel, Eni, Terna e Snam – con le quali trainare una transizione energetica basata sul controllo di tutte le fonti – gas e petrolio, rinnovabili, nucleare – finalizzata a difendere la capacità di produzione industriale e a rafforzare l’innovazione.
Considerando che il futuro energetico prospettato dall’Unione Europea è basato sull’impianto del Net Zero Act, risulta evidente che l’Italia, in attesa di assumere un posizionamento più consono alla nostra importanza in un Europa più forte ed equilibrata, debba impostare una strategia, diretta a realizzare una maggiore sicurezza e autonomia sia energetica che industriale.
Sembra possibile che l’Italia, in risposta ai grandi cambiamenti in atto, possa assumere un ruolo di leadership nella transizione energetica. Una strategia nazionale, mirata a ridurre la dipendenza dalle importazioni e a sviluppare il settore industriale, soprattutto delle rinnovabili elettriche sembra possibile: le scelte e le azioni dipendono da condizioni endogene e le capacità tecnologiche e produttive sono limiti superabili, anche ipotizzando ulteriori sviluppi nell’individuazione di tecnologie sostitutive.
Una strategia energetica di breve periodo, fondata in primis su una rinnovata forza per la gestione immediata della crisi energetica, e dunque basata sia sul contenimento dei prezzi e delle fluttuazioni commerciali che sulla diversificazione delle forniture di gas, sulla immediata realizzazione di rigassificatori, sulla riattivazione di giacimenti nazionali. In questo senso il rafforzamento del nostro ruolo nel mediterraneo nell’ambito del Piano Mattei con la realizzazione di accordi strategici e commerciali con l’Algeria e con la Libia, sia per la fornitura di gas che per la realizzazione di nuove infrastrutture, ci sembra un grande ed importante passo in questa direzione.
E una strategia energetica di medio periodo, fondata sulla sicurezza e sulla ricerca dell’indipendenza energetica, con un chiaro e forte piano d’azione per lo sviluppo dell’industria delle rinnovabili elettriche (fotovoltaico, eolico e idroelettrico) e del nucleare di nuova generazione, guardando con attenzione al mini nucleare.
Le rinnovabili elettriche sono oggi una grande opportunità per definire una strategia industriale di medio periodo, in grado di ridurre la dipendenza italiana dalle diverse fluttuazioni internazionali e, soprattutto, di creare una consistente filiera industriale per la produzione di pannelli solari e di pale eoliche, di inverter e di sistemi di accumulo, di smart grid, di auto e di colonnine elettriche.
Una grande opportunità per l’Italia, ancora molto dipendente dalle fonti fossili, importate da pochi Paesi ma già quinta potenza mondiale per installazione di fotovoltaico, e ricca, nelle università, nei centri di ricerca e nelle imprese, di capacità tecnologiche e vocazione all’innovazione.
Secondo l’ultimo report del giugno 2022 di Elettricità Futura, a fronte di una domanda nazionale di energia elettrica che passerà dagli attuali 318 TWh ai 360 Twh nel 2030, il nostro paese per rispettare il target europeo per la decarbonizzazione definito prima dal Fit 55 poi dal Repower Eu, dovrà installare oltre 85gw di rinnovabili entro il 2030 (coprendo con pannelli fotovoltaici e pale eoliche non più dello 0,3% dell’intera superficie nazionale). Con la realizzazione di questo ambizioso ma fattibile obiettivo il nostro fabbisogno elettrico verrebbe soddisfatto per almeno l’ 84% da fonti rinnovabili, che quindi potrebbe trainare l’offerta nazionale di componenti e tecnologie.
E in questo senso un ottimo segnale di rinascita industriale è l’inaugurazione ufficiale, a Catania, del cantiere “3Sun gigafactory”, la fabbrica di Enel di pannelli solari che passerà dalla attuale capacità produttiva di 200 Mw l’anno a circa 3 Gw l’anno, con un investimento è stimato in circa 600 milioni di euro e che diventerà la più grande d’Europa, più grande della somma di tutte le altre fabbriche attive in Europa.
L’Italia può e deve giocare un ruolo da protagonista nel sistema energetico europeo e mondiale, l’obiettivo è certamente quello di ridurre la dipendenza tecnologica dall’estero e di trasformarci in un grande paese produttore di tecnologie e componenti; e di rifondare una classe dirigente votata finalmente più all’innovazione che alla burocrazia, in forte controtendenza rispetto alle direzioni, sia pubbliche che private, degli ultimi decenni.
Non mancano naturalmente le competenze, non mancano le idee, non mancano le opportunità. Non resta che esercitare con coraggio la nostra volontà e la nostra tenacia.