Un anno è trascorso dall’attacco russo all’Ucraina e la pubblicistica scientifica in merito si è considerevolmente accresciuta: si va dal libro-intervista di Francesco Borgonovo e Luciano Canfora (Guerra in Europa. L’Occidente, la Russia e la propaganda, Milano, OAKS, 2022) al volume di Alessandro Orsini (Ucraina. Critica della politica internazionale, Roma, Paper First, 2022), Noam A. Chomsky (Perché l’Ucraina, a cura di Valentina Nicolì, Milano, 2022), a Vittorio Emanuele Parsi (Il posto della guerra e il costo della libertà, Milano, Bompiani, 2022) per citare soltanto i titoli più rilevanti. Ma il recente volume dell’ultracentenario Edgar Morin (nato l’8 luglio 1921), Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (Milano, Cortina, 2022) fornisce una visione che, per estensione e per profondità interpretativa potrebbe costituire una “cornice ermeneutica” per una lettura critica degli interventi pubblicati in questo primo anno di guerra.
Edgar Morin è filosofo, nel senso più ampio del termine; e se la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero, come sosteneva Hegel, la guerra, che è il fenomeno caratterizzante il nostro tempo, non può non esserne il centro. La guerra consiste nella licenza di commettere crimini: tutto quello che, nel corso di una guerra, si fa, consiste in azioni che, in tempo di pace, i più diversi codici penali considerano crimini. Non si tratta soltanto di sottolineare, come ha fatto Alex Comfort (Authority and Deinquency. A Study in the Psychology of Power (1950), tr. it. Potere e delinquenza. Saggio di psicologia sociale, Milano, Eleuthera, 1996), la compenetrazione fra pubblico potere e criminalità, ma di vedere nella guerra una condizione di sospensione delle leggi ordinarie della convivenza e del rapporto tra i popoli. Morin osserva che la nozione di “crimine di guerra”, coniata nel 1945-1946 e tornata di attualità oggi, è rimasta vaga sino alla pubblicazione, nel nuovo millennio, del volume di David van Reubrouck, Revolusi. L’Indonésie et la naissance du monde moderne (tradotta in lingua francese nel 2022). Van Reybrouck individua tre criteri per definire il “crimine di guerra”: l’occasionalità, la strutturalità e la sistemicità. I crimini di guerra occasionali sono le ferite sotto tortura, gli omicidi commessi da individui o gruppi militari senza istruzioni del comando; i crimini di guerra strutturali sono i crimini di guerra e le violenze decisi da ufficiali o generali; i crimini di guerra sistemici fanno parte della strategia militare di un governo in guerra, il quale ne è il decisore. Tutti questi crimini di guerra, osserva Morin, “hanno come vittime civili o militari disarmati” (p. 21). Non si tratta, quindi di scontri fra armati, nei quali si innesta quella metafisica della guerra delineata da Julius Evola in La dottrina aria di lotta e vittoria (1941), ma della uccisione di esseri umani inermi, situazione in cui una sola componente del “confronto” è a rischio della vita.
Morine, che alla resistenza ha partecipato, nota, a proposito della conclusione della seconda Guerra Mondiale: “Come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico” (p. 23). Tanto i regimi democratico-liberali, quanto i regimi totalitari commisero crimini di guerra sistemici, con l’aggiunta di crimini di guerra strutturali e con la logica sequela di crimini di guerra occasionali. Non si trattò di una guerra fra “Bene” e “Male”, fu una pura e semplice guerra, potenziata, rispetto alle precedenti, dai progressi nelle tecnologie della distruzione. Ricordiamo che carattere sistemico rivestirono e rivestono anche le tecnologie terroristiche, come strumenti tattici per fiaccare la resistenza psicologica del nemico.
Almeno fin dal 1625, anno della pubblicazione del De iure belli ac pacis di Ugo Grozio (recentemente tradotto in italiano a cura di Carlo Galli, Il diritto di guerra e di pace, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2023, tre volumi), numerosi sono stati i tentativi di “normare la guerra”, tutti, indistintamente falliti; nel suo libro Della guerra (1832), Carl von Clausewitz ha scritto, non a caso, che “la guerra è un atto della violenza e non c’è limite alcuno nel suo impiego. Dal momento che ognuno impone all’altro questa legge, ne nasce un’interazione che concettualmente conduce necessariamente all’estremo.” (C. von Clausewitz, Della guerra, edizione ridotta a cura di Gian Enrico Rusconi, Torino, Einaudi, 2000, p. 20). La tendenza all’estremo, naturalmente, è vincolata al consumo di mezzi finanziari, economici e di esseri umani; non a ragioni extra-militari, extra-economiche, extra-politiche; ma è vincolata anche, se non, soprattutto, dalla osservazione di Clausewitz: “L’intenzione politica è lo scopo, la guerra è il mezzo” (p. 39). Lo scopo può essere il mero interesse nazionale, oppure la “realizzazione del “Bene”” (come nelle Crociate, nelle diverse guerre “sante” o nelle guerre per i “diritti dell’uomo”. Di fatto, le prospettive di un mondo senza guerre, affacciate da Immanuel Kant nel 1795 (Per la pace perpetua, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1997) sembrano essere state respinte nella dimensione del “dover essere”. La realtà sembra ben descritta dal filosofo cristiano Aurelio Agostino: “remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt nisi parva regna” “tolta di mezzo la giustiza, che cosa sono i regni se non grandi bande di predoni? Poiché anche le bande di predoni, che cosa sono se non piccoli regni?” (De Civitate Dei, IV, 4). La giustizia è impossibile senza un “terzo” che giudichi i due contendenti; ma il “terzo”, nelle relazioni internazionali, non c’è.
La Seconda Guerra mondiale costò tra i sessanta e i sessantotto milioni di morti; pochi anni dopo la sua fine le guerre ripresero e ancora oggi ci sono centosessanta guerre in corso. La guerra è un affare economico: tra fabbricazione e commercializzazione di armi, ricostruzioni dopo le distruzioni, le economie produttivistiche (secondo la definizione di Peter Kénde, La crisi della società produttivistica (1971), tr. it. Milano, OAKS, 2022) girano sempre più rapide in direzione del “profitto infinito”; e la spinta all’infinito, qui, come nella biosfera, distrugge il finito.
La guerra muove le masse e incrementa il carattere psicopolitico del nostro presente, come argomentato da Byung Chul-Han (Psicopolitica, 2014, tr. it. Milano, Nottetempo, 2016); non stupisce quanto osserva Morin sulla “isteria di guerra”: “l’odio del nemico e la sua totale criminalizzazione”, già evidenti nella guerra del 1914-1918, la propaganda che camuffa o maschera la realtà dei fatti, le menzogne di guerra – ognuno occulta i propri campi di concentramento / di sterminio (ciascuno li ha fatti “per il bene!”), si diffonde l’ossessione che “il nostro campo sia infestato da spie del nemico” (la “spionite”, come la chiama Morin, a p. 31). Il nemico diventa il criminale e si invoca la responsabilità collettiva del popolo cui egli appartiene. E’il “ragionamento” dei jihadisti, certamente, ma anche il nostro. Perché la guerra ha una natura totalizzante, basata sulla contrapposizione di amico e nemico. Morin osserva: “È immensa la porta dei crimini di guerra commessi dalle Einsatzgruppen , dalle SS e dalla Wehrmacht. Ma, lo ripeto, i bombardamenti a tappeto sistemici delle città tedesche, soprattutto da parte delle aviazioni americana e inglese, sono retrospettivamente dei crimini di guerra” (p. 37). Non c’è guerra, dunque, senza crimini di guerra, occasionali, strutturali e sistemici, quali che siano le finalità delle parti in conflitto.
Il grande timore è che la guerra in Ucraina si radicalizzi (pp. 54-55); “i nostri media indicano un slo imperialismo, quello russo, ma sono muti sull’altro imperialismo che interviene ovunque sul globo, contravvenendo spesso, come la Russia in Ucraina, alle convenzioni internazionali” (p. 55). Questo grande timore è l’ombra della nuova èra iniziata nel 1945, “con la minaccia di morte per l’umanità, minaccia che è continuamente accresciuta dalla proliferazione delle armi nucleari, dalla loro sofisticazione e dal loro possibile utilizzo qualora l’escalation continui ad aggravare e ad amplificare la guerra in Ucraina” (pp. 64-65). Gli esseri umani si trovano tra le mani una immensa energia, senza che la loro capacità di darsi un ordine interiore si sia accresciuta, come notava Daniel Halévy in L’accelerazione della storia (1948, 1961, tr. it. Milano, OAKS, 2019).
Poco contano le forme di governo nelle relazioni internazionali, contrariamente a quanto pensava Kant, nel 1795; nonostante gli U.S.A. abbiano una costituzione che garantisce le libertà civili, hanno appoggiato colpi di Stato in favore di dittature (Grecia, Guatemala, Cile, Argentina); hanno devastato il Vietnam, invaso una prima volta l’Iraq con pretesti menzogneri e una seconda volta in spregio del diritto internazionale; la Russia che, a differenza degli U.S.A. non praticò lo sterminio dei popoli indigeni conquistati in Siberia, né la schiavitù (come gli U.S.A. fino al 1865) non è mai pervenuta alle libertà civili. Sul piano del comportamento internazionale, U.S.A e Russia agiscono in modo identico- problema da porre ai politologi!
In Ucraina ci sono “tre guerre in una: la continuazione della guerra interna fra potere ucraino e provincia separatista, la guerra russo-ucraina e una guerra politico-economica internazionalizzata antirussa dell’Occidente animata dagli Stati Uniti” (p. 93). Quale potrebbe essere la soluzione? Le condizioni di pace sono chiare, secondo Morin: “il riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina o con uno statuto di neutralità, o con la sua integrazione nell’Unione Europea e dunque con una garanzia militare. Come contropartita, la regione separatista del Donbass non dovrebbe tornare sotto la sovranità ucraina, ove la sua popolazione russofona sarebbe oppressa e repressa” (p. 101).
Occorre, tuttavia, quardare oltre, alla luce della crisi alimentare e finanziaria che sta attraversando il mondo: nel 2017 c’erano ottanta milioni di esseri umani sull’orlo della carestia; dopo la pandemia, erano duecentosettantasei milioni; oggi sono trecentoquarantacinque milioni. Le condizioni climatiche mutate a causa del produttivismo e delle guerre cui l’Occidente è tutt’altro che estraneo spingono numeri crescenti di esseri umani a tentare la sorte dell’attraversamento del Mediterraneo, diventato una fossa comune di incomune estensione. Per utopico che possa sembrare, tornano alla mente le proposte di Otto Neurath in Pianificazione internazionale per la libertà (1942 tr. it. in O. Neurath, L’utopia realmente possibile, Milano, Mimesis, 2016): non c’è libertà civile e politica senza libertà dal bisogno; e la libertà dal bisogno deve essere tutelata a livello internazionale, per evitare guerre e la diffusione delle carestie.
La domanda è: da chi?
Oltre tre secoli dopo la Pace perpetua di Kant la domanda è, ancora, senza risposta concreta.
Francesco Ingravalle