A volte capita di rileggere vecchi libri e di scoprirvi nuovi spunti, anche su questioni di rilievo fondamentale. È il caso di una raccolta di scritti di Julius Evola, pubblicata quindici anni orsono dalle Edizioni Controcorrente, dal titolo: La via della realizzazione di Sé secondo i Misteri di Mithra.
Si tratta di testi composti fra gli anni venti e i primi anni settanta dello scorso secolo, dedicati al significato profondo, non meramente letterale o allegorico, sotteso al Mithraismo, culto misterico legato al Sole Invitto, che divenne, come è noto, religione ufficiale dell’Impero di Roma grazie all’opera di Aureliano Augusto nel terzo secolo dell’era volgare.
Sono scritti di estremo valore, sia da un punto di vista storico-critico e filologico, sia, e questo è ciò che ora più ci interessa, per alcune raffinatissime intuizioni del pensatore romano in grado di offrire prospettive spirituali anche e, forse, soprattutto al lettore di oggi. O meglio, a chi nel qui e ora percepisce sé stesso come estraneo al nichilismo e alla decadenza dell’età in cui si trova a vivere.
Tema di fondo è il cambiamento di stato esistenziale, la rinascita, il trascendere la dimensione materiale contingente da parte dell’iniziato ai Sacri Misteri. Il far emergere, in altri termini, grazie al superamento di prove, sempre più dure e complesse, la natura autentica dell’Io profondo, la scintilla divina obnubilata dal velo della corporeità.
Come il Dio Mithra, nato dalla pietra e vincitore del Toro – immagine del caos materico e dei vincoli dell’irrazionale e oscura passionalità, l’adepto – homo novus è finalmente in grado di comprendere, con mente pura e distaccata, il flusso incessante del divenire che lo circonda e di cui è parte. E questo non annullando sé stesso in un rinunciatario e passivo misticismo, maschera di una interiore sconfitta, ma imponendosi appunto al divenire, esercitando una attiva Volontà di potenza, che tanto richiama la prospettiva evocata da Nietzsche.
L’individuo rigenerato diviene così l’interprete della realtà apparente, libero dal vincolo del dolore e dai vani attaccamenti a ciò che è destituito da ogni positività spirituale autentica.
Si tratta, dunque, di una palingenesi, di una metamorfosi totale, atta a distinguere l’uomo schiavo e cieco della caverna di platonica memoria, dal filosofo, dall’eroe, dall’uomo di azione disinteressata e consapevole. E tale stato dell’essere implica l’autarchia, ovvero il pieno dominio di sé, il possedere senza essere posseduti, il sereno distacco che non significa mai indifferenza, la consapevolezza di incarnare il principio luminoso solare che rende l’uomo amico del divino, svincolato dalle angustie e dal dolore che opprimono masse disorientate e abbrutite dal carnal carcere de la materia, per usare un’espressione di Giordano Bruno.
Giuseppe Scalici