IDEOLOGIA DEL PRODUTTIVISMO

È da poco uscita – settembre 2022, per i tipi di Oaks- una nuova edizione, magistralmente introdotta dal professor Francesco Ingravalle de La crisi della società produttivistica dell’economista e sociologo ungherese Peter Kende. Si tratta di un nome non fra i più noti, almeno in Italia. Eppure, la sua opera, tradotta in italiano nel 1973 a cura delle Edizioni Rusconi ma pubblicata due anni prima in Francia, dove Kende si era rifugiato in seguito all’occupazione sovietica del 1956, mantiene, ancora, e forse soprattutto, oggi, un valore sia analitico che propositivo, di non secondaria importanza.

Società produttivistica, dunque, il contesto al cui interno ci muoviamo e che è tipico del sistema capitalistico avanzato permeante, grazie alla cosiddetta globalizzazione, l’intero pianeta.

Come evidenziato da Autori del secolo scorso quali Max Weber e Werner Sombart, il Capitalismo è l’esito manifesto dello spirito “occidentale” moderno, antitradizionale, volto a sottomettere una realtà naturale che si vuole ridotta ai suoi aspetti materiali, misurabili e ponderabili attraverso la “tecnoscienza”. Una forma, dunque, di razionalismo che ha saputo, per limitarci al dominio economico, trasformare il capitale, cioè il danaro, da mezzo a fine ultimo. Non è più il bene materiale ad essere l’obiettivo primario dello scambio, ma il profitto che, attraverso la produzione, deve implementare sé stesso in un processo tendenzialmente infinito, con tutte le contraddizioni che ne derivano, come messo in evidenza ancora a metà Ottocento da K. Marx e F. Engels, pensatori comunque accomunati al loro nemico di classe, il “borghese”, nel ritenere l’economia, quindi una dimensione materiale, la struttura portante della società.

Tutto il resto: visioni del mondo, religioni, apparati giuridici, cultura etc., è qualcosa di “sovrastrutturale”, riflesso della base economica, in grado di determinarlo.

 È il danaro, entità astratta ma misuratore universale e simbolo di “dominio”, più che di potenza, a prevalere su ogni altro aspetto. Non esiste più una totalità naturale organica che accoglie in sé anche il genere umano, secondo l’eterno rapporto fra macro e microcosmo. Abbiamo di fronte non più cose o beni, ma “merci”, cioè oggetti acquistabili all’interno di un “mercato”. Nell’Occidente moderno, soprattutto dopo le due rivoluzioni settecentesche, quella industriale e quella francese, tutto il comparto economico si riduce ad acquisizioni di profitto. Profitto che subordina anche l’uomo, che diventa una semplice rotella all’interno di un ingranaggio che lo sovrasta e lo opprime, essendo il “valore” della persona misurabile, appunto, in termini economicistici.

Come affermato ancora negli anni Venti dello scorso secolo dal Sombart:

«Il capitalismo è nato dalla profondità dell’anima occidentale. Il medesimo spirito, dal quale sono nati il nuovo Stato e la nuova religione, la nuova scienza e la nuova tecnica, crea anche la nuova vita economica […] È lo spirito di Faust, lo spirito dell’irrequietezza, dell’ansia, lo spirito che anima adesso gli uomini.»

Non a caso Peter Kende, a proposito di “produttivismo” parla di “società”, il luogo, cioè, dove i rapporti interpersonali sono esteriori e basati sulla funzione, e non di “comunità”, dove, per contro il vincolo fra i diversi soggetti è ontologico, o, in altri termini, basato sull’essere interiore profondo e non sull’avere o sul ruolo rivestito. Il teorico ungherese auspica un futuro possibile in cui possa venir riscoperta proprio la dimensione comunitaria, di solidarietà umana e di mutuo sostegno. Questo per superare la situazione disumanizzante della società capitalistica. Se vogliamo, si tratta di un ritorno alle origini, quindi, letteralmente, di una “rivoluzione” spirituale e, quindi, economica e politica.

Di certo i cinquant’anni dall’uscita del testo di Kende non hanno mostrato la svolta auspicata. Le problematiche connesse al produttivismo, alla connaturata rincorsa al profitto, alla società dei consumi, alle sperequazioni fra le diverse parti del mondo, ai disastri climatici ed ambientali sono, anzi, sempre più gravi e rischiano di sfuggire al controllo degli apparati tecnocratici.

Ma non si vuole fare un discorso moralistico o di mero e stucchevole passatismo: siamo convinti della necessità di un cambio di passo, della riconquista di una identità nazionale europea in grado di esprimere la propria Weltanschauung di potenza in chiave di Civiltà e di riconquista consapevole del proprio destino storico. 

REDAZIONE KULTURAEUROPA

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