Una decina di anni fa mi trovavo a Tokyo, la sera scintillava tra luci di ogni tipo, acciai prometeici e vetri infrangibili. Il viavai umano si disponeva in saliscendi di marziale bellezza. A dire dei miei accompagnatori, la capitale nipponica era però meno illuminata rispetto a quanto fosse prima del disastro di Fukushima. L’impressione non cambiava la mia percezione di europeo e di italiano abituato ad essere a contatto inevitabilmente con un altro tipo di urbanizzazione, ma erano e continuavano ad essere quelle luci ad attirare la mia attenzione, miriadi di potenze alternate seducevano quanto il canto delle sirene. A nulla era valsa la fortuna di aver avuto la fortuna di viaggiare e vedere tanto. Quella era comunque un’altra cosa.
Le principali metropoli giapponesi si estendono in altezza o, come disse Vladimir Majakovskij durante la sua visita a New York, sono “città che vivono in piedi”. Scendendo, o meglio, tornando sulla terra da una di queste infinite torri che ci aveva regalato uno splendido scorcio notturno della capitale nipponica, dove le luci, sì ancora loro, imperavano con ancora maggior fulgore, lungo la strada immediatamente adiacente al grattacielo, ci imbattemmo in alcuni senzatetto che riposavano coricati in un angolo adiacente un cantiere stradale, opportunamente vigilato da un uomo in divisa che sollecitava con due luminosi lampeggianti, quasi fosse il faro ad entrata di un porto, i passanti ad attraversare con solerzia e attenzione quel tratto solo momentaneamente dismesso.
Un’espressione di dispiacere fu proferita da uno di noi nei confronti di quei disperati. “Se sono in quelle condizioni è perché se la sono cercata”. Fu la risposta laconica della nostra accompagnatrice giapponese.
Sono passati dieci anni da quella sera e quelle parole ancora mi spiazzano. Sono però parole che, maneggiandole con cura e introspezione e senza scivolare nell’umanitarismo d’accatto, non possono che sollecitare alcune riflessioni sul tipo di società, quella dei consumi, di cui tutti facciamo parte e della quale, in determinata misura, siamo componenti essenziali per la sua esistenza.
Di critiche a questo tipo di società, ormai giunta alla sua deriva neoliberista in cui l’inevitabile smantellamento dello Stato Sociale è costantemente agitato e applicato, prendendo a pretesto solo la parte burocratica e amministrativa inefficiente e facendone subdolamente un capro espiatorio per tutto l’apparato, una società in cui una piccolissima parte della popolazione detiene la stragrande maggioranza delle risorse del pianeta, ne leggiamo da anni.
Sulla società dei consumi si è pronunciato Zygmunt Baumann, celebre per il concetto di “società liquida”, il quale, dopo aver citato Poverty and Culture, un pamphletdel prof. Lawrence M. Mead sulla “scelta” dei poveri di essere tali “a sbafo” di coloro che invece si sacrificano lavorando, ci lascia in eredità alcuni spunti assai profondi sul ruolo dei poveri intravisto come architrave necessaria della stessa società dei consumi. Questi vengono infatti agitati come una bandiera sfilacciata al vento, sono il monito costante del baratro entro il quale chiunque può scivolare qualora non si sforzasse con tutto se stesso ad osservare il precetto benedicente del consumo e della sua fondamentale esibizione, ora esposta a dismisura dai social network, come status symbol atto a dimostrare l’ottenimento, non solo del successo e quindi di salvezza, ma addirittura della felicità, ultima e definitiva maschera necessaria del presente.
La vera emarginazione dei perdenti diviene, secondo Baumann, in un contesto in cui “non esiste alcuno standard se non quello di arraffare il più possibile, nessuna regola salvo il giocarsi bene le proprie carte”, “un indispensabile supporto all’integrazione della società dei consumi attraverso la seduzione del mercato”.
Il sociologo Herbert Gans ritiene che “i sentimenti dei più fortunati verso i poveri sono un misto di paura, rabbia e disapprovazione, ma la paura è forse quello prevalente”. Ecco allora che l’ottenimento dei beni di consumo configura beffardamente lo specchietto per le allodole destinato a spostarsi sempre un po’ più in là, obbligando lo stesso consumatore a correre a perdifiato nella “ruota” infinita costituita dagli inviolabili precetti di produzione, consumo e profitto, con il costante incubo di scivolare nell’abisso dei dannati e della loro fondamentale condizione.
Valerio Savioli