ECONOMIA E LAVORO

IL CORPORATIVISMO: FILOSOFIA O ASPETTO PRATICO DELLA SOCIETÀ CHE FU?

Quando parliamo di Corporativismo, sovente, ci capita di pensare a qualcosa di lontano, di distante rispetto ai nostri tempi. In verità, il lemma, destinato all’ostracismo più intransigente al di là di qualsivoglia lettura critica, è portatore di una storia che non possiamo osservare con sicumera o noncuranza. Il Corporativismo è la sintesi della parentesi fascista, nonché lo “spauracchio” che ha determinato una sequela di fenomeni tutt’oggi vigenti nel nostro Paese.  

Non è pleonastico passare in rivista ciò che, da un punto di vista segnatamente giuridico, fu il Corporativismo rectius l’ordinamento corporativo. Chi scrive si appresta ad effettuare una disamina del fenomeno dalla prospettiva squisitamente giuridica, in quanto rimette l’analisi dell’aspetto teleologico allo studio dei tecnici della materia. L’autore, nondimeno, a prescindere dalla trattazione giuridica del tema, tornerà sul quesito, posto quale titolo del contributo, fornendo un preciso e puntuale riscontro. 

Anzitutto, il Corporativismo, già vissuto – seppur in forme diverse – nel Medioevo e, se vogliamo, finanche nell’Impero Romano, trova la sua ragione d’esistere nelle corporazioni, creature che, a detta di taluni, mi riferisco ai “protagonisti” del nostro tempo, rappresentavano “sovrastrutture burocratiche”. Cosa furono, dunque, le corporazioni? Semplicemente enti dello Stato fascista, ossia la riunione delle forze produttive del Paese. Detto in altre parole, le corporazioni erano strutture di tipo orizzontale composte dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori e dai membri del partito (1).

Il fascismo, sotto il suo usbergo, diede alla luce 22 corporazioni, una per ogni categoria produttiva. Ma quali erano le funzioni che esse esercitavano? In estrema sintesi possiamo individuare le seguenti, suddivise nelle macroaree del campo sociale ed economico: funzioni di emanazione di norme generali sulle condizioni di lavoro e del tirocinio e del garzonato (2); funzioni conciliative; funzioni economiche (3).

Ad ogni modo, le corporazioni, benché espletassero, sotto l’egida fascista, una serqua di funzioni che non è possibile enunciare con dovizia di dettagli in questa sede, furono il prodotto di un percorso, non fugace, della creazione dell’ordinamento corporativo. Nello specifico, gli enti in commento, ancorché già presenti nella mente del Duce e risuonanti sin dagli esordi del Capo del Fascismo, furono citati – suggerisco timidamente – nella legge sull’ordinamento sindacale, la n. 563 del 1926. La legge testé richiamata, pur tuttavia, faceva riferimento agli “organi centrali di collegamento”. Invero, fu il regolamento di attuazione della citata legge, al suo titolo III, a precisare la formula legislativa in “organi centrali di collegamento o corporazioni”. Sempre nel 1926 vi fu la creazione del Ministero delle Corporazioni, ma non di quest’ultime. Nel 1930, a valle della promulgazione dell’atto costitutivo del Corporativismo, la Carta del Lavoro, fu eretto il Consiglio nazionale delle Corporazioni, ma non le “sovrastrutture burocratiche”. Solo con a legge n. 163 del 1934 furono partorite le tanto agognate e bramate corporazioni. 

È evidente, orbene, che il disegno giuridico fu estenuante dal punto di vista temporale e non di facile compimento. Tuttavia, credo che il succitato disegno, sebbene realizzato sotto la “minaccia egemonica fascista”, fosse finalizzato alla nascita di uno Stato diverso, sociale, che si poneva in antitesi rispetto al previgente ordinamento liberale; distante, financo, dallo stile socialista, di cui erano evidentemente impregnati i fascisti o gli amici di questi. Non a caso la dottrina, anche quella autorevole, accenna alla terza via, ovvero alla strada di un Corporativismo necessitato, una strada che il fascismo ha dovuto percorrere onde permeare il nuovo Stato di una veste originale, discrasica rispetto sia ai regimi comunisti, che dilagavano nell’est del mondo, sia agli apparati liberali che oltreoceano cercavano in tutti i modi di emulare lo schema economico e sociale proposto dai “socialisti vestiti in camicia nera”. 

Ad ogni modo, oltre alla lettura temporale e fattuale del tema, v’è da soggiungere che le corporazioni, nei termini suesposti, non furono le uniche protagoniste del Corporativismo. Proprio no. Di fatti, vi era il sindacato, beninteso quello di diritto pubblico, che, quale metà, quale completamento delle corporazioni (4), era chiamato a regolare i rapporti di lavoro mediante la stipulazione dei contratti collettivi. Il sindacato, si badi bene, per la prima volta riconosciuto giuridicamente e formalmente nella storia Patria (5), avendo la personalità giuridica di diritto pubblico, era legalmente chiamato a rappresentare i lavoratori, iscritti o meno al sindacato, della categoria cui esso si riferiva. Altresì, assurgendo a rango di diritto pubblico, pertanto investito della personalità che ne conseguiva, stipulava – sulla scorta dei dettami sanciti nella Carta del lavoro– contratti collettivi obbligatori (6). La disciplina collettiva, quindi, era valevole erga omnes

Non a caso la trattazione si spinge su temi che, a primo acchito, possono sembrare indifferenti. Tutt’altro! Gli operatori del diritto, mi riferisco a quelli esperti del diritto corporativo (id est del diritto del lavoro), ovvero del diritto sindacale, hanno ben a mente il senso di netta ripugnanza al corporativismo, o meglio al suo regime, che ha contraddistinto i padri costituenti nei lavori di stesura della Carta costituzionale. Per questo è fondamentale avere conoscenze erudite dei principali aspetti del corporativismo; essi si sono riverberati, per sfortuna soprattutto dei lavoratori, nell’articolo 39 della Costituzione, mai attuato. La norma cardine della libertà sindacale dianzi trascritta altro non è che il frutto del compromesso delle anime della terza sottocommissione della costituente, tutte accomunate dal senso di disprezzo del regime, e quindi delle sue creature. Sì, nostro malgrado, per colpa di quei “fascisti maledetti” – poiché non fu possibile riproporre un modello simil corporativo – in quanto ciò avrebbe significato ratificare ciò che fu, e che senza remore oggi deve essere deprecato, dobbiamo accontentarci di un sindacato che agisce quale “associazione non riconosciuta” sulla scorta del combinato disposto degli articoli 18 e 39 della Costituzione. Orbene, il sindacato, ergo CGIL, CISL e UIL (a seguire gli altri) non possono rappresentare legalmente i lavoratori, salvo espresso conferimento del mandato, e non sono chiamati a stipulare contratti collettivi con efficacia obbligatoria.

Le implicazioni sono tante, e chi scrive non può risolvere il “tema del contendere” in questo laconico contributo. Non posso, tuttavia, esimermi dall’esprimere una mia personale considerazione: sono fermamente convinto che il modello simil corporativo, atteso il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di ciascuno, se rivisitato in una chiave eminentemente democratica, può rappresentare l’alternativa ad uno stato che, al momento, lascia il posto ad un “modello sociale di tipo privatistico”. Per comprendere queste mie, è semplicemente opportuno documentarsi sugli strumenti di welfare privato viepiù incentivati dai nostri governanti, di destra e di sinistra. Al popolo del lavoro non interessa l’etichetta di partito con la quale si offrono gli strumenti di politica sociale, interessano i fatti. Pertanto, limitandomi ad accennare ad interventi di de iure condendo, potremmo pensare di attuare l’articolo 39, e forse anche l’articolo 46 della Costituzione. Sì, anche se Mussolini osò realizzare il modello della socializzazione del lavoro (e nessuno ne è edotto), ovverosia l’antenato dell’articolo 46, destra e sinistra potrebbero pensare di inserire nell’agenda di governo gli strumenti succitati per concretizzare la punta di diamante di un nuovo e vero stato sociale. È semplice, l’intelaiatura dei vecchi modelli è nota, basta unicamente riproporla nel pieno rispetto dei principi democratici. I politicanti dovrebbero considerare, inoltre, che l’attuazione dei summenzionati articoli potrebbe trasformare la Costituzione in un formidabile strumento di raccolta del consenso. 

In ogni caso, tanto per evitare sbavature di sorta e abbandonare la mia “fantasia” e la mia vena idealista nei confronti di una classe politica “amorfa”, e al fine di fornire un oculato riscontro alla rubrica di questo scritto, ritengo che non sia possibile espungere dal Corporativismo il concetto teleologico. È escluso dalla sequela delle possibilità il dimenticatoio dei personaggi di elevatissima caratura, come Ugo Spirito, Giuseppe Bottai, Augusto Turati, Carlo Costamagna, Giovanni Gentile, Edmondo Rossoni e tanti altri. Ciascuno di essi, non necessariamente proveniente dai quadri del regime, esaltando la Nazione in guisa fascista, offrì il proprio valore aggiunto sia in un’accezione prettamente filosofica che giuridica. È per questo che il corporativismo deve essere inteso quale sintesi di un progetto più ampio di quello teleologico con evidenti ricadute pragmatiche di tipo giuridico. Il corporativismo non fu qualcosa di astratto. Il corporativismo fu ciò che il popolo ebbe modo di saggiare, seppur in maniera effimera, per oltre un ventennio. “E tanto basta per ricordare ciò che fu e che non deve assolutamente tornare”.

Domenico Giardino

1. I rappresentanti del Partito Nazionale Fascista, nell’ottica di un regime autoritario e diretto attore dell’economia e delle dinamiche sociali, rappresentavano lo Stato. Il partito, orbene, strumento egemone del regime consentiva il pieno controllo delle dinamiche economiche e sociali che si concretizzavano anche per mezzo delle corporazioni. Si tenga ben a mente, infine, che nella vigenza del fascismo nulla poteva compiersi se non per mano del partito. 

2. Le corporazioni, su delega dell’associazioni sindacali collegate, allorché la categoria produttiva ne fosse sprovvista, erano chiamate ad emanare le cosiddette “ordinanze corporative”, testi normativi contenenti la disciplina del lavoro. Esse, dunque, sostituivano la contrattazione collettiva nei settori cui questa era assente.

3. Le corporazioni, tra la pletora di funzioni, erano preposte all’emanazione di tariffe economiche per i servizi di interesse pubblico (ad es. per il trasporti automobilistici).

4. Si veda, in proposito, la dichiarazione n. 6 della Carta del Lavoro

5. Si veda la legge n. 563/1926

6. Per un approfondimento dei parametri ai quali dovevano attenersi i sindacati e le associazioni professionali, si approfondisca la lettura delle dichiarazioni n. 3,4,6 e 12 della Carta del Lavoro

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